Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, La scomparsa di Majorana, Morte dell’inquisitore, Gli zii di Sicilia. Sono solo alcune delle opere di Leonardo Sciascia di cui, nei giorni scorsi, si è ricordato l’anniversario della nascita. Uno degli scrittori siciliani che al meglio ha raccontato la storia, la mentalità, le abitudini, le usanze, le tradizioni della nostra regione – tra ironia e un certo disincanto – e sempre con obiettività e minuzia di particolari. Abbiamo chiesto a Fabrizio Catalano – regista teatrale ormai quarantenne, nonché nipote dello scrittore di Recalmuto – e a Matteo Collura – giornalista, scrittore e caro amico di Sciascia – alcune curiosità sull’autore.
La testimonianza del nipote

“Era al contempo un uomo grande e semplice, o forse grande proprio perché semplice. Nelle foto che lo ritraggono insieme agli altri scrittori, intellettuali e anche politici che lo venivano a trovare all’epoca in paese in estate, si nota ad esempio come il loro abbigliamento non mutasse da un anno all’altro. Era un periodo molto diverso, lontano anni luce dalle sovrastrutture che il successo pretende oggi. Tutte queste persone rimanevano totalmente normali e del resto va detto che questa campagna nei pressi di Racalmuto dove noi andavamo in vacanza è rimasta quella che era anche adesso per molti aspetti. Addirittura, per tanti anni della mia infanzia e della mia adolescenza non c’era neanche una cabina telefonica. C’era una ex stalla dove il proprietario della casa aveva messo il telefono a scatti, eppure questo non impediva né a Sciascia di essere a contatto col resto del mondo né al resto del mondo di rintracciarlo: arrivavano le telefonate e poi veniva qualche ragazzo a chiamarlo. Era un mondo al giorno d’oggi inimmaginabile”, racconta Catalano.
Gli intellettuali che amavano il confronto con Sciascia
A proposito dei politici che incontravano Sciascia, aggiunge: “A visitare mio nonno andavano uomini del calibro di Craxi, Martelli, Pannella, Mannino; venivano a trovarlo anche personaggi ideologicamente molto lontani da lui, ma tutti volevano sapere cosa Sciascia pensava di quello che stava accadendo in Italia e nel mondo – continua il regista -. Avevano, usando un termine che oggi viene utilizzato per gli arbitri, una sorta di sudditanza psicologica che attualmente non esiste perché non solo la cultura è totalmente screditata nella società in cui viviamo, ma anzi quando uno scrittore al giorno d’oggi fa una dichiarazione pubblica subito ci si domanda chi gliel’ha suggerita. La politica è molto più forte della cultura che vive uno stato di soggezione nei confronti delle istituzioni” .
A volersi confrontare con lo scrittore, anche tanti colleghi: “Quanto agli scrittori, per noi bambini erano molto gradite le visite di Bufalino, che era stato insegnante e con i più piccoli ci sapeva fare. Io, come tanti bambini avevo la passione per i dinosauri e Bufalino la assecondava interessandosi ad esempio ai libri che ne trattavano – ricorda Catalano della sua infanzia in Sicilia -. Un aneddoto interessante riguarda un incontro in un ristorante romano con Moravia e Tinto Brass. Mio nonno e Moravia si conoscevano da tanti anni e tutti e due avevano scritto belle opere, dunque mi aspettavo che si salutassero in modo espansivo mentre il loro fu un saluto cordiale ma nulla più e questo aspetto mi colpì. Per quanto riguarda Pasolini, io non l’ho conosciuto ma so che c’era un rapporto di fiducia reciproca testimoniato da un copioso scambio epistolare fra i due”.
Le idee di Sciascia sulla vita e sul futuro erano ricche di consapevolezza: “È capitato che parlassimo dell’esistenza della vita dopo la morte e ricordo con precisione che una sera in campagna al chiaro di luna lui mi disse che ‘di fronte a questo grande dilemma l’unica cosa sensata è il dubbio‘ – aggiunge il nipote -. Il futuro credo che lo vedesse con una certa disillusione che non era necessariamente indice di pessimismo, perché lui ha più volte detto che ‘il solo fatto di continuare a scrivere è una prova di ottimismo’, però per l’avvenire bisognava lavorare parecchio, potremmo sintetizzare così”.
Le migliori opere secondo Catalano
Abbiamo chiesto a Fabrizio Catalano a quale opera del nonno sia più legato. “Mi piace molto Il cavaliere e la morte – ha detto -. Perché l’ho visto nascere e per il tono al contempo eversivo e malinconico. E perché, aneddoto curioso, fu scritto a penna in un quadernone, dove io ogni tanto andavo a sbirciare. Ciò dovuto al fatto che in Friuli, dove eravamo in vacanza quell’anno, non c’erano macchine da scrivere. Detto questo, voglio cogliere l’occasione per citare due libri meno menzionati di altri: Nero su nero, una sorta di diario, una raccolta di appunti che però ci dà diverse chiavi anche per comprendere l’attualità e ‘1912 + 1‘, un giallo ambientato nei primi del ‘900 che si tende a trascurare mentre è un’opera leggera e profonda che ha fatto grande la letteratura italiana”.
Sciascia come fonte d’ispirazione
Abbiamo anche chiesto a Fabrizio Catalano, che ormai da anni vive e lavora a Roma, in che modo si ispiri al nonno nel suo lavoro di regista. “Avendo messo in scena rappresentazioni tratte dalle opere di Sciascia ovviamente mi sono inspirato a lui, mentre altri lavori non hanno riguardato mio nonno. Ma al di là di questo potrei dire che Sciascia mi ispira nella vita ancor più che nel lavoro. Mi ha insegnato che bisogna avere delle idee e lottare per affermarle. E io, nel mio piccolo, cerco di farlo ogni giorno” – precisa -. Grande amico di Leonardo Sciascia è stato Matteo Collura, giornalista e scrittore che da anni vive a Milano. Autore di articoli culturali, ha scritto tra gli altri per il Corriere della sera ed attualmente collabora con Il Messaggero. Tra i suoi libri è da annoverare una biografia di Leonardo Sciascia dal titolo: Il maestro di Regalpetra e in occasione dell’anniversario della nascita dello scrittore di Racalmuto ha scritto, per l’Osservatore Romano, un pezzo dal titolo: ‘La scrittura come azione morale’ “.
Matteo Collura e la sua amicizia con Sciascia, tra etica e senso d’appartenenza
E proprio Matteo Collura, giornalista e scrittore, ha deciso di rilasciare al QdS un’intervista esclusiva per raccontare il suo prezioso legame con Leonardo Sciascia.

Matteo Collura, ci racconta della sua amicizia con Sciascia e di cosa le ha lasciato questo vostro rapporto?
“L’amicizia tra me e Sciascia nacque dal fatto che eravamo entrambi provenienti dal territorio agrigentino e ci trovammo a Palermo nel 1970 al Giornale di Sicilia, io in attesa di essere assunto come praticante, mentre lui svolgeva il ruolo di opinionista e scrittore. Anche lui fu assunto come praticante, ma poi abbandonò perché la sua vocazione era prevalentemente la letteratura. La nostra amicizia nacque probabilmente dal fatto che eravamo entrambi agrigentini in un periodo nel quale, a Palermo, chi veniva dalla provincia veniva guardato con un po’ di razzismo, cosa che entrambi percepimmo. Lui fu il primo a leggere il mio romanzo di esordio: Associazione indigenti, poi pubblicato da Einaudi su approvazione di Italo Calvino. Fu proprio Sciascia a introdurmi nella casa editrice, non raccomandandomi, ma sottolineando il fatto che quello era un’opera che all’epoca poteva andare bene per la Einaudi. Tutto ciò alla fine degli anni ’70. L’insegnamento più grande che mi ha lasciato è quello farmi considerare sufficiente ciò che guadagno, cosa che mi ha detto più di una volta e che a me è rimasta come ‘bussola’. Era un’esortazione che esercitava in primis su se stesso”.
Com’era il legame tra Sciascia e la Sicilia?
“Era un legame molto forte. Lui diceva che se si è scrittori si è ‘condannati’ a scrivere della Sicilia. Naturalmente era un modo per spiegare che da letterati siamo portati a trattare i temi che meglio conosciamo. E poi la Sicilia è una terra, un universo fortemente condizionante. C’è un senso di appartenenza forte dei siciliani per la Sicilia, così come irlandesi e israeliani ad esempio hanno un grande attaccamento alla loro terra. Per questo l’emigrazione che ci ha riguardato è stata un fenomeno veramente traumatico e sul quale sono stati realizzati film, libri e sono nati aneddoti. Per un siciliano emigrare dalla Sicilia oltre Oceano è uno sradicamento che porta grande sofferenza e la fine di ogni speranza per la continuità dei legami familiari. Per Sciascia la Sicilia era un mondo con cui confrontarsi anche se lui, quando nei suoi libri parlava della Sicilia, si rendeva conto di scrivere del mondo. Lui infatti lo disse: ‘La Sicilia come metafora’ ”.
Sciascia scrisse dei saggi su Pirandello. C’è un’opera dello scrittore di Racalmuto particolarmente influenzata dal drammaturgo?
“Nel Giorno della civetta e in A ciascuno il suo. Perché lui dice di avere aggiunto al mistero del giallo il dramma pirandelliano: quello della frammentazione dell’io, un tema molto novecentesco, trattato da Pirandello soprattutto in Uno, nessuno e centomila. E poi Sciascia ha scritto un libro in cui secondo me parla più di se stesso che del protagonista: Alfabeto pirandelliano. Un saggio nel quale, per brevi capitoli, spiega Pirandello e le ragioni della sua scrittura, ma al tempo stesso parla di sé, della sua storia e delle sue ragioni dello scrivere. Non per niente io – dopo qualche anno dalla morte di Sciascia -, a parte Il maestro di Regalpetra che è la biografia, ho scritto un libro molto simile ad Alfabeto pirandelliano che si intitola Alfabeto eretico, pubblicato dalla Longanesi con il titolo Alfabeto Sciascia. Anch’io ho scritto un Alfabeto Sciascia, proprio perché parlando di lui avrei parlato di me, della mia idea di letteratura, della mia vita e del mio destino di scrittore”.
C’è un messaggio che secondo lei Sciascia voleva lasciare alle future generazioni? E quale?
“In realtà non saprei, anche se il saggio intitolato A futura memoria e dal sottotitolo pessimista – Se la memoria avrà un futuro -, si apre con un’epigrafe: ‘Preferisco perdere lettori piuttosto che ingannarli’. Questa è una dichiarazione esplicita e ci dice tutto di Leonardo Sciascia. Ci racconta l’uomo, lo scrittore, la sua scelta, la sua etica. Chi può permettersi di dire una cosa del genere? Altri scrittori del suo e del nostro tempo potrebbero permetterselo? Io dico di no”.

