L’identità di un popolo - QdS

L’identità di un popolo

L’identità di un popolo

venerdì 10 Marzo 2023

L’identità di un popolo è certamente quell’elemento caratterizzante il popolo ebraico

Il tempo cancella tutto, i secoli si susseguono, l’uno dopo l’altro ed opere mastodontiche come le piramidi o come il colosseo, inesorabilmente si svuotano della loro originaria vita e restano sul bagnasciuga della storia come grosse conchiglie vuote ed in cui, per sentire il suono della risacca del mare, occorre conoscere almeno un po’ delle vicende umane da cui hanno avuto origine.

L’identità di un popolo, intesa come il coacervo delle caratteristiche in cui lo stesso si riconosce e per la quale si distingue dagli altri, è certamente quell’elemento caratterizzante il popolo ebraico, più di ogni altro, e che vale a smentire la regola del tutto materialistica, che afferma, che in un mondo fatto solo di eventi materiali ed in cui nessun Dio veglia, il più forte sopraffà e cancella il meno possente. La storia del popolo ebraico vale a sovvertire questa credenza.

Gli ebrei, prima di diventare quella collettività che noi tutti conosciamo per aver dato origine alla religione da cui sono scaturite le religioni abramitiche, erano in origine migranti economici e si spostarono in Egitto che, ai tempi dei faraoni, era quello che oggi definiremmo una super potenza economica e militare avanzatissima, oltre che con livelli di conoscenza elevatissimi nei campi delle scienze, in genere, dell’astronomia, della medicina e della cultura in generale. Una società organizzata in modo piramidale al cui vertice era posto il faraone in cui la natura divina ed umana erano un tutt’uno. Quando, all’origine della nostra storia, il faraone, che tra le più importanti attività a cui con maggiore impegno attendeva, era il buon andamento ed il governo del suo reame, vide che il numero degli ebrei immigrati nelle sue terre cresceva sempre più e che questi migranti non si assimilavano con il mondo degli egiziani, in quanto la vita di questi stranieri era imperniata attorno al loro culto ed al rispetto scrupoloso delle tradizioni, ne decretò lo sterminio, perché non tollerava la presenza di una popolazione estranea in seno ai suoi sudditi.

Ordinò, quindi, alle ostetriche degli ebrei che venissero uccisi tutti i figli maschi, per i quali erano chiamate ad assistere al parto, provocando il primo atto di insubordinazione civile da parte degli israeliti, giacchè le ostetriche disobbedirono (Esodo 1;17). A causa di questo ordine impietoso del faraone, Il neonato Mosè venne affidato alle acque del Nilo, per tentare la sorte e sfuggire a morte certa. Mosè ebbe salva la vita per la pietà della principessa egiziana che lo raccolse. Da adulto, sebbene cresciuto come un nobile, organizzò la più grande rivoluzione della storia, anzi la madre di tutte le rivoluzioni, che nei secoli non verrà mai dimenticata, perché ebbe a sovvertire le dinamiche naturali del dominio dell’uomo sull’uomo, divenendo il modello indimenticato di ogni futura rivolta dei popoli. Basti ricordare che nel nascente stato americano, generato dalla ribellione all’Inghilterra, Benjamin Franklin e Thomas Jefferson avevano tanto impresso nelle loro menti e nei loro cuori le gesta di Mosè che volevano che la scena dell’esodo biblico dall’Egitto, venisse divulgata come immagine iconica della loro rivoluzione.

L’idea della ferma ribellione del più debole nei confronti del suo oppressore più forte è sopravvissuta per millenni alla civiltà del dio faraone, che come tutte le cose realizzate dagli uomini è decaduta e poi scomparsa, divenendo solo un insieme di mirabili reperti archeologici, mentre l’idea della prima rivoluzione che fonda su un etica di rispetto dell’ essere umano è ancor oggi più viva che mai, in ogni parte della terra che degnamente anela alla civiltà. Il popolo ebraico, autore della madre di ogni ribellione, ogni anno a Pasqua, rinnova la sua gioia continuando a festeggiare la sua uscita dall’Egitto. Nel corso della storia il senso di identità, che per gli ebrei ha comune matrice nella religione, ha avuto la sua origine nel semplice assunto, dalla inesauribile energia: Israele adora il suo unico Dio, gli altri popoli i loro dei. Un credo che ha indotto loro ad ingaggiare feroci lotte con popoli molto più forti per numero e per armamenti, conoscendo, a causa di tante intrepide ma sfortunate gesta, l’amaro sapore della sconfitta militare e delle catene della schiavitù.

Le dolorose cicatrici di queste lotte, per la identità, hanno ispirato tutte le arti e hanno dato origine ad opere mirabili ed immortali. A cominciare dalla deportazione in Babilonia, al tempo di Nabucodonosor II, dopo la distruzione del primo Tempio, che era stato costruito da re Salomone e che era santuario e simbolo della percezione che ogni ebreo aveva di se stesso, a cui, dopo millenni, si ispirerà la mirabile aria del coro del “Va pensiero” del “Nabucco” di Giuseppe Verdi, in cui il rimpianto della patria perduta è espressione del desiderio di identità ed indipendenza, tanto da diventare simbolo e proclama clandestino del Risorgimento italiano. Ancora più insidioso fu il tentativo di ellenizzazione del mondo ebraico, giacchè questa volta il rischio non era quello di essere passati a fil di spada da eserciti dalle soverchianti schiere, ma di essere sedotti da una raffinata nuova filosofia che in effetti ebbe a cambiare il mondo.

Poi giunsero i Romani la cui avversione per gli ebrei è racchiusa in queste poche parole di Cicerone: “Quella gente (gli ebrei) aborrisce lo splendore del nostro impero, la gravitas del nostro nome, le usanze e le leggi dei nostri avi “, che con le loro legioni, a cui il piccolo popolo si oppose strenuamente ed eroicamente, sapendo di non poter fronteggiare il più grande esercito del mondo, ma con l’intima certezza che le spade non avrebbero mai potuto cancellare la ricchezza del loro pensiero incompreso. Le parole di Gneo Pompeo, generale romano che per primo nel 63 a.e.v. occupò Gerusalemme ed il suo Tempio, ancora una volta sancirono la inconciliabilità con i vinti; il condottiero imperiale ebbe ad affermare che nel luogo più sacro degli ebrei non vi erano immagini della divinità che veneravano, giungendo alla sbrigativa conclusione che vuota era la sede del tempio e vuota era la loro religione. Tra romani ed ebrei non poteva esserci alcuna comprensione e nessuna illusoria pace poteva resistere a cause delle continue sommosse, con le quali gli ebrei più religiosi ed intolleranti manifestavano di ricambiare il disprezzo verso gli occupanti da cui erano oppressi e ferocemente depredati. Alla fine del sanguinoso e mai sedato conflitto l’imperatore Tito, nel 70 distrusse, totalmente, Gerusalemme, disperse le sue genti, ed il loro tempio che saccheggiò, per portare a Roma le ingenti ricchezze. Il bottino di Tito, per valore non è stato inferiore a quello di Pompeo, che secondo la descrizione dello storico Giuseppe Flavio, risulta che dal solo Tempio vennero prelevati oltre agli oggetti sacri in oro, il tesoro che ammontava a duemila talenti in oro ed il talento, che era una unità di misura dell’epoca viene equiparata agli odierni trenta litri.

Gli ebrei sopravvissuti alla carneficina vennero messi in catene e venduti come schiavi ed i ricchi proventi della campagna di guerra vennero impiegati per finanziare i fasti di Roma ed il trionfo del suo imperatore. A memoria ed onore della grande impresa, che era stata l’ultima e la conclusiva delle guerre giudaiche, venne eretto l’arco di Tito, in cui è raffigurato l’ingresso trionfale del condottiero in Roma, con l’ingente bottino, tra cui rileva, tra tanti oggetti preziosi anche la grande menorà, candelabro a sette bracci d’oro, prelevata dal tempio e simbolo dell’ebraismo. Gran parte di quelle ricchezze servì a finanziare la costruzione del Colosseo, oggi importante meta turistica ma che certamente non è valsa a far sopravvivere il potere dei cesari e la loro religione imperniata sulla potenza dell’impero, mentre oggi è ben viva la religione e la tradizione culturale che costituisce da sempre l’ebraismo e che gli occupanti non potevano e non dovevano comprendere.

In fine, dopo millenni, arrivarono i nazisti, mossi da un tanto opportunistico quanto implacabile odio nei confronti degli ebrei, che dopo averli attentamente studiati compresero che la estinzione di questo popolo poteva passare soltanto attraverso la cancellazione della sua identità, quindi con metodica e puntigliosa determinazione, cercarono di depredarli di tutto, ed in capo di ogni cosa privarono le loro innocenti vittime del nome, primo segno di distinzione di ogni uomo, che cinicamente sostituirono con un numero tatuato sul braccio. Come sia finita al nazismo di Hitler è a tutti noto, così come è altrettanto conosciuto che questa mala pianta condannata dalla storia ed esecrata dalla civiltà, cerca ancora di far riemergere, tra miasmi, i suoi rovi spinosi, da sotto la pietra tombale con cui è stata sepolta dall’intero consesso mondiale, mentre l’insidiato ebraismo, albero sempre verde che i venti della storia hanno piegato, ma non spezzato, è rimasto in vita ed ogni primavera i suoi rami sono carichi di frutti per l’ intera Umanità, che oggi più che mai cerca nutrimento per l’anima.

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