Difficile contare lingue e dialetti che esistono in tutte le parti del mondo; sicuramente decine di migliaia o più perché i suoni della lingua sono diversi in relazione alle razze, ai luoghi, alle civiltà.
L’architettura neurobiologica del nostro cervello è distintiva perché funziona per assimilazione. Non è un caso che i bambini apprendano la prima lingua spontaneamente, ovunque essi si trovino, cioè in qualunque parte del mondo.
L’espressione di ognuno di noi è legata alla nostra biologia ed anche al funzionamento della nostra ragione, con la conseguenza che siamo immersi in suoni cui siamo abituati fin da piccoli, mentre da adulti – studiando – impariamo altri suoni ed altri modi di esprimersi, cioè altre lingue.
Al di là della comunicazione, il nostro cervello si rifiuta di non trovarne il senso, anche quando non capisce il suono, perché è proteso a sapere che cosa gli viene comunicato.
Il nostro cervello si può paragonare ad un hardware contenente dei software, i quali si utilizzano, da un lato, come archivi, e dall’altro, come modalità per le informazioni in dotazione o che arrivano dall’esterno.
L’elaborazione di tali informazioni avviene in modo che noi via via apprendiamo, anche nell’ordine in cui le assimiliamo, le cataloghiamo e le poniamo in essere.
Questa capacità fa sì che si possa ragionevolmente presumere come l’intelligenza artificiale, sempre più progredita ed avanzata, non sarà mai in condizione né di eguagliare né di competere con quella umana. Quest’ultima ha una capacità quasi infinita di elaborare e di combinare il senso dei linguaggi e delle cose; mentre l’intelligenza artificiale, usata anche per far funzionare i robot, è definita all’interno dei propri confini perché non ha capacità di autosvilupparsi.
Quanto precede non sembri una questione di lana caprina perché spesso i guai e le guerre sono nati anche da incomprensioni linguistiche, che hanno generato offese e contro-offese. Dunque, è importante capirsi; e per farlo ci vogliono i suoni ed i segni, entrambi necessari per ottenere il relativo riscontro.
Sorge una domanda: ma come mai, nonostante tutte le innovazioni che hanno fatto progredire l’Umanità, questa non si è posta il problema di tendere ad una sola lingua universale? Per la verità qualcuno propose “l’Esperanto” (1887), ma poi l’esperimento abortì.
Sull’argomento vi sono diverse opere scritte da Fosco Maraini e da Andrea Moro, interessanti perché sviluppano ragionamenti in neuroscienze, epistemologia e sintassi teorica delle lingue umane, oltre che le relazioni tra cervello e linguaggio.
Capirsi, ecco ciò che serve, ovviamente avendone la volontà, in quanto la trasmissione di suoni o di segni di per sé non è bastevole alla comprensione fra parti diverse. È quindi necessario che ci si voglia comprendere reciprocamente. Diversamente, come si usa dire, si tratta di “dialoghi fra sordi”.
Come è noto, “il peggior sordo è colui che non vuol sentire”, figuriamoci se non vuol capire.
La tendenza ad una lingua universale è, dunque, destinata a fallire? L’interrogativo ha una risposta ed è: No. Perché? Perché, in verità, una lingua universale esiste, è sempre esistita, e continuerà nel futuro.
Qual è? La Musica, cioè quell’insieme note scritte sul pentagramma e formate da appena sette simboli, più alcune derivati (bemolle e diesis), i quali sono stati uniti e si uniscono in decine di miliardi di combinazioni. Il pentagramma viene letto in tutto il mondo da qualunque popolo, da qualunque persona, senza alcuna distinzione di razza, cultura o nazione.
Pensando a questo versante, risulta del tutto incomprensibile come l’Umanità non abbia cercato di imitare il modello citato per trasferirlo nel linguaggio parlato. Per cui oggi si verifica questa profonda differenza fra il linguaggio universale capito da tutti, ma proprio da tutti, cioè la musica, ed il linguaggio parlato, talmente differenziato che rende stranieri i popoli, salvo poi farli comprendere con lingue nazionali che diventano universali, come l’inglese.

