“Avvoca’, tu, il dna, ce l’hai disgraziato”. Se non bastassero le condanne in primo e secondo grado per concorso esterno in associazione mafiosa a descrivere l’inclinazione verso il crimine di Grazio Ferrara, 45enne gelese tra gli arrestati di ieri nel blitz dei carabinieri seguito all’ordinanza di custodia cautelare del tribunale di Caltanissetta, ad arrivare in soccorso sono le parole di Claudio Di Leo, 64enne di Campofranco ritenuto un esponente della locale famiglia mafiosa.
Ferrara fino al 2019 è stato iscritto all’albo degli avvocati del Foro di Gela, da cui poi è stato sospeso in seguito al coinvolgimento nell’indagine che ha portato alle pesantissime condanne per avere fatto gli interessi della cosca Rinzivillo.
I due sono tra i 29 indagati dell’inchiesta che ruota su un traffico di stupefacenti che si muoveva anche fuori dalla Sicilia. Il giudice per le indagini preliminari per Ferrara ha ordinato una nuova misura cautelare in carcere, sottolineandone “lo spessore criminale”.
Grazio Ferrara, capo e promotore
I magistrati nisseni ritengono che l’avvocato, che dopo la sospensione dalla professione ha preso in mano un bar a Gela, avesse un ruolo di primo piano nell’organizzazione criminale. “Ferrara sovrintendeva ai traffici di droga ascrivibili al sodalizio, occupandosi dell’apertura di nuovi canali di approvvigionamento, mettendo in contatto gli associati con i fornitori, nonché intervenendo al fine di risolvere i contrasti che insorgevano”, si legge nell’ordinanza.
Tra i contatti privilegiati di cui Ferrara godeva c’era quello con un 43enne di nazionalità albanese: Elvis Ziu. Quest’ultimo, residente a San Donato Milanese, in Lombardia, sarebbe stato il principale fornitore di hashish. Il gruppo che ruotava attorno a Ferrara si occupava anche di cocaina che arrivava soprattutto dalla Calabria.
L’attività di spaccio fruttava, considerato che gli inquirenti hanno tracciato investimenti per oltre 80mila euro nel giro di poche settimane.
Più di un semplice difensore
L’indagine dei carabinieri è partita in seguito a una nota del Nucleo investigativo riguardante alcune intercettazioni disposte nell’ambito dell’inchiesta Antiqua, che nel 2024 ha portato all’esecuzione di un altro blitz nei confronti di affiliati alla famiglia di Campofranco.
Dalle discussioni erano emersi “importanti e puntuali spunti investigativi sul conto di Grazio Ferrara”. Il suo era un nome già noto alle forze dell’ordine. “In data 30 gennaio 2025 la Corte di Appello di Caltanissetta ha confermato la sentenza di primo grado emessa dal Tribunale collegiale di Gela che lo ha riconosciuto colpevole del reato di concorso esterno nell’organizzazione criminale di stampo mafioso, denominata Cosa nostra e, segnatamente, del clan Rinzivillo, perché metteva a disposizione del sodalizio – viene ricostruito nell’ordinanza – quale professionista legale di fiducia e assicurava la trasmissione all’esterno degli ordini e delle direttive del reggente capo clan Salvatore Rinzivillo”.
L’agire di Ferrara andava oltre il ruolo di difensore. “Manteneva i contatti e i rapporti con altri esponenti mafiosi sia di Cosa nostra, appartenenti sia alla provincia di Caltanissetta che ad altri mandamenti siciliani, che soggetti appartenenti alla associazione mafiosa della Stidda”, ha scritto la Corte d’appello nissena.
Armi e passato
Nelle intercettazioni confluite nella nuova indagine ci sono diversi dialoghi in cui Ferrara, intrattenendosi con Di Leo, l’esponente mafioso di Campofranco, parla di affari illeciti. “Avvoca’, in questo ambiente, quanta intelligenza c’è?”, domandava Di Leo al professionista. Che dal canto suo diceva: “Ce n’è poca, ma ad altissimi livelli c’è”.
Tra i discorsi affrontati c’erano anche gli immancabili confronti tra un presente eccessivamente caotico – “arriva un ragazzino di mer*a, mi aspetta e mi spara e io sono morto… sono impazziti tutti”, diceva Ferrara – e un passato dove, all’interno della malavita, tutto invece era più lineare. In questo caso il confronto, data la differenza d’età, poggiava sui ricordi di Di Leo, il quale raccontava di come negli anni Ottanta – nel pieno di una delle faide mafiose a Gela – c’era stato chi si era messo “sopra un tetto con un fucile di precisione che appena usciva gli doveva fare saltare il cervello” ai rivali.
Di armi ne avrebbe maneggiate lo stesso avvocato. “Qua c’è qualcuno che sa sistemare? Io ne ho una rotta in questo momento. Trentotto a tamburo, sai quelle vecchie che ancora non c’era neanche la matricola, quindi non è neanche cancellata?”, rivelava Ferrara.
Ode alla violenza
Le confidenze tra Ferrara e Di Leo hanno riguardato anche altre aspetti. Mentre l’uomo di Campofranco ammetteva di non essere portato per gli scontri fisici, ma di preferire le armi, l’avvocato dal canto suo diceva di non avere timori nei confronti di nessuno. “Non è presunzione, io con le mani… te la posso dire una cosa? Ce ne vogliono due come me. Non ho limiti, se ti vedo a terra, io non mi fermo, continuo sino a quando, tu non respiri più. Sono fatto così”, diceva Ferrara. Lo stesso poi, a un tratto, raccontava di avere anche ucciso in passato, una delle pochissime volte in cui era stato costretto a usare un’arma da sparo.
Nel racconto di Ferrara, all’origine dell’omicidio ci sarebbe stato il mancato pagamento di una merce non meglio definita, della cui compravendita si era fatto garante. In merito a quest’ultima vicenda, però, gli inquirenti nutrono qualche dubbio sulla veridicità del racconto: “Ferrara fa riferimento al proprio passato criminale e alla propria indole violenta, confessando di aver ammazzato un uomo, omicidio del quale, tuttavia, non si ha alcun riscontro”.

