Dall’inchiesta Pandora all’operazione Mercurio, come il voto di scambio continua a minare la democrazia
“Sono in debito con te”. Detto da un politico a un elettore qualunque, agli elettori intesi come collettività, non ci sarebbe nulla di strano. Anzi, sarebbe indicativo della consapevolezza di ciò che dovrebbe significare occuparsi della cosa pubblica. Tutt’altro significato assume la stessa frase se ad ascoltarla non è un comune cittadino, ma qualcuno ritenuto appartenere alla criminalità organizzata. Di storie sui rapporti equivoci tra politici di qualsiasi livello – dai consiglieri delle più piccole municipalità agli onorevoli che occupano i posti più importanti del governo – la storia d’Italia è piena. Spesso queste vicende finiscono anche all’attenzione delle procure. Gli esiti dei processi sono diversi: c’è chi viene condannato e chi alla fine riesce a districarsi da qualsiasi accusa.
Nella variegata casistica in cui l’operato di un amministratore o di un politico può intrecciarsi con i clan, quella individuata dall’articolo 416 ter del codice penale è forse la più emblematica: il voto di scambio politico-mafioso. Il reato, che la legge punisce con una pena da dieci a quindici anni, è stato modificato nel 2019 dalla legge n. 43. Viene punita “l’accettazione, diretta o a mezzo di intermediari, della promessa del sostegno elettorale in cambio della erogazione di denaro, di qualunque altra utilità o della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione criminale”. Due passaggi sono fondamentali: basta la promessa di voti per fare emergere la condotta penale – e dunque non è necessario…