Home » Mafia, il retroscena dell’omicidio Perdichizzi a Barcellona: il brindisi di Capodanno e poi l’agguato

Mafia, il retroscena dell’omicidio Perdichizzi a Barcellona: il brindisi di Capodanno e poi l’agguato

Mafia, il retroscena dell’omicidio Perdichizzi a Barcellona: il brindisi di Capodanno e poi l’agguato

A dirlo agli agenti del commissariato di Barcellona Pozzo di Gotto, pochi giorni dopo il fatto, fu lo stesso Crinò, all’epoca 28enne

Cuccaru u spinaciu”, hanno coricato lo Spinacio. La sera dell’1 gennaio 2013, Giovanni Crinò avrebbe appreso così, dalla confidenza di un compaesano intriso di quel cinismo che finisce per svilupparsi se si vive in un territorio storicamente costretto a fare i conti con i morti ammazzati, dell’omicidio di Giovanni Perdichizzi. A dirlo agli agenti del commissariato di Barcellona Pozzo di Gotto, pochi giorni dopo il fatto, fu lo stesso Crinò, all’epoca 28enne.

La ricostruzione

Salvatore Bucolo, suo amico di tre anni più grande, disse invece di avere scoperto ciò che era accaduto intorno alle 19 dentro al bar Jolly di via Vespri dal padre. “Ero a casa, è rientrato e mi ha dato la notizia, perché lui era andato al presepe vivente di piazza Convento”, disse Bucolo.

Le sue parole, così come quelle di Crinò, compaiono nei verbali stilati in seguito a quelle che in gergo vengono definite s.i.t., sommarie informazioni testimoniali. Un contesto in cui la raccolta di informazioni da parte degli investigatori non avviene in presenza di un legale, poiché chi parla non è un indagato ma soltanto qualcuno che potrebbe essere a conoscenza di particolari utili alle indagini.

Per questo motivo le dichiarazioni di Crinò e Bucolo, comprese quelle che fanno riferimento allo scooter Yamaha Tmax di Bucolo, molto simile a quello usato nell’agguato, non troveranno spazio nelle aule giudiziarie. Per la Dda di Messina, però, cambia poco: gli elementi per attribuire ai due la responsabilità dell’assassinio di Perdichizzi sarebbero tanti. Una tesi accolta dalla gip Arianna Raffa, che nei giorni scorsi ha disposto l’arresto dei due.

I collaboratori di giustizia

All’origine dell’ordinanza di custodia cautelare che ha portato in carcere Crinò e Bucolo ci sono le parole di più collaboratori di giustizia, tutti provenienti dagli ambienti legati ai Barcellonesi, tra le più sanguinarie famiglie di Cosa nostra. Rivelazioni arrivate in tempi diversi e che, in alcuni casi, sono state rimpinguate lo scorso anno.

“Le dichiarazioni dei collaboratori, complessivamente considerate, hanno consentito di accertare che l’omicidio è maturato in un contesto nel quale Antonino Calderone, Lorenzo Mazzù e Filippo Barresi avevano raggiunto una sostanziale intesa sulla eliminazione dello stesso Perdichizzi”, ha scritto la giudice per le indagini preliminari facendo riferimento ad alcune delle figure di maggior prestigio criminale nella cosca.

In tale contesto Bucolo e Crinò sarebbero stati incaricati di eseguire l’omicidio. I due erano tutt’altro che sconosciuti alla vittima. “L’esecuzione è stata affidata a soggetti che, in passato, erano stati a costui legati e ne conoscevano bene le abitudini di vita – si legge – Se ne erano poi allontanati, allineandosi a un nuovo ordine gerarchico, in ragione dei legami intrattenuti, con Barresi, Calderone e Mazzù”.

I nomi dei due presunti responsabili, peraltro, erano venuti fuori già l’anno dopo il delitto. A ottobre del 2014, era stato Francesco D’Amico, collaboratore di giustizia e fratello del boss Carmelo D’Amico, a raccontare ai magistrati di avere saputo in carcere chi erano gli autori dell’omicidio Perdichizzi. La mancata conferma da parte della fonte di D’Amico, tuttavia, aveva spinto gli inquirenti ad andare avanti alla ricerca di ulteriori riscontri.

Un lavoro non facile, se si considera che l’indagine per molto tempo è stata a carico di ignoti e, nel 2018, si è chiusa con un’archiviazione.

Le cose sono cambiate nel momento in cui i racconti su ciò che avrebbe preceduto l’entrata in azione dei killer si sono arricchiti di particolari. Compreso quello raccontato da Alessio Alesci, che, divenuto collaboratore di giustizia, ha detto che la notte di Capodanno, dopo avere festeggiato, insieme ad altri appartenenti alla cosca si spostò in un casolare per recuperare un borsone pieno di armi e munizioni. All’interno ci sarebbero stati anche alcuni fucili a canne mozze, lo stesso tipo di arma utilizzata per uccidere Perdichizzi.

Il movente

Perdichizzi fu ucciso perché ormai di troppo. È questo il punto su cui convergono le parole di tutti i collaboratori di giustizia. Per un periodo referente del gruppo di San Giovanni – articolazione legata alla famiglia dei Barcellonesi – a Perdichizzi nel 2012 iniziarono a essere contestate una serie di cose, tra cui l’iniqua gestione delle somme raccolte con le estorsioni.

L’1 dicembre 2012, esattamente un mese prima di essere ucciso, un altro uomo era stato ammazzato. La vittima si chiamava Giovanni Isgrò e venne sorpresa all’interno di un salone da barba. Isgrò era vicino a Perdichizzi. Nelle settimane che seguirono, stando a quanto raccontato da una persona che lo conosceva bene, lo stesso Perdichizzi avrebbe iniziato a temere per la propria incolumità. “Quando mi disse di essere rimasto solo, l’ho invitato ad andarsene da Barcellona, dicendogli che dopo quel ragazzo si sarebbero giocati anche a lui”, si legge in un verbale compilato una settimana dopo il delitto. Perdichizzi, a quel consiglio, avrebbe risposto “che non sapeva dove andarsene e che comunque si sapeva guardare, facendo riferimento a qualche amico che riteneva ancora di avere”.

La nota della polizia

Già nei giorni successivi all’omicidio, in una relazione firmata dall’allora dirigente del commissariato di Barcellona veniva tratteggiato il clima che si era creato attorno a Perdichizzi. Nel documento si fanno riferimenti anche ad altri episodi che avevano portato la vittima a essere messa alla porta dai vertici della cosca.

“Era stato invitato a mettersi da parte per una serie di violazioni delle regole cui era tenuto ad attenersi. La decadenza di Perdichizzi, già criticato per essere dedito all’uso di sostanze stupefacenti e alcol, aveva avuto inizio a seguito della cosiddetta vicenda Bonina (2011), allorquando lo stesso, impulsivamente e senza alcuna autorizzazione da parte dei vertici dell’organizzazione aveva disposto – al solo scopo di vendicarsi di una riduzione di stipendio – l’attentato presso l’azienda dell’imprenditore”.

A non andare giù ai vertici della cosca era stato anche un altro aspetto: Perdichizzi aveva commissionato l’attentato a un rampollo della famiglia mafiosa. Il fratello del giovane, dopo essere uscito dal carcere, avrebbe detto a Perdichizzi “di non farsi più vedere in giro e di non occuparsi più delle attività criminali del gruppo minacciandolo che diversamente gli avrebbe staccato la testa”. Parole non dette a caso. Passeranno pochi mesi e un uomo, con il casco integrale, che per gli inquirenti sarebbe stato Salvatore Bucolo, aprirà la porta del bar Jolly e mentre sul bancone ci sono ancora i bicchieri con cui si era brindato poco prima al nuovo anno sparerà alcuni colpi contro Perdichizzi, causando quello che i medici legali descrissero come un “grave shock emorragico conseguente ad ampia lacerazione del cuore nonché a lesioni del polmone sinistro, del fegato, del rene destro e di grossi vasi ematici”.