Malattia mentale curabile fuori dal carcere - QdS

Malattia mentale curabile fuori dal carcere

Antonino Lo Re

Malattia mentale curabile fuori dal carcere

giovedì 25 Aprile 2019

ROMA – Se un detenuto che sta scontando la sua pena in carcere presenta una grave malattia di tipo psichiatrico, il giudice potrà disporre che il soggetto venga curato al di fuori del penitenziario, anche quando la pena residua è superiore a quattro anni, la misura alternativa della detenzione domiciliare “umanitaria”, o “in deroga”, così come già accade per le gravi malattie di tipo fisico.
A stabilirlo è la Corte Costituzionale con la sentenza n. 99 che ha accolto la questione sollevata dalla Corte di Cassazione con una ordinanza del 22 marzo 2018.

La pronuncia della Corte Costituzionale fa riferimento al caso di un detenuto condannato per concorso in rapina aggravata, il quale aveva fatto ricorso avverso un’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma che non aveva accolto la sua richiesta di differimento della pena per grave infermità ai sensi dell’art. 147 del codice penale, in quanto applicabile solo ai casi di grave infermità fisica, mentre nel caso di specie il detenuto risultava affetto da “grave disturbo misto di personalità, con predominante organizzazione border line in fase di scompenso psicopatologico”, accertato in seguito a gravi comportamenti autolesionistici.
Al momento in cui il Tribunale di sorveglianza si pronunciava, la pena residua da espiare era di sei anni, quattro mesi e ventuno giorni.
L’ordinanza di rimessione aveva riferito che si trattasse di una patologia grave e radicata nel tempo, per la quale la detenzione determina un trattamento contrario al senso di umanità.

Pertanto, la Suprema Corte sollevava dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 47-ter (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), “nella parte in cui detta previsione di legge non prevede la applicazione della detenzione domiciliare anche nelle ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta durante l’esecuzione della pena”.

Secondo la Corte la mancanza di qualsiasi alternativa al carcere per chi, durante la detenzione, è colpito da una grave malattia mentale crea un vuoto di tutela effettiva del diritto fondamentale alla salute e si sostanzia in un trattamento inumano e degradante quando provoca una sofferenza così grave che, cumulata con l’ordinaria afflittività della privazione della libertà, determina un sovrappiù di pena contrario al senso di umanità e tale da pregiudicare la salute.
“La malattia psichica – si legge nella sentenza – è fonte di sofferenze non meno della malattia fisica ed è appena il caso di ricordare che il diritto fondamentale alla salute ex art. 32 Cost., di cui ogni persona è titolare, deve intendersi come comprensivo non solo della salute fisica, ma anche della salute psichica, alla quale l’ordinamento è tenuto ad apprestare un identico grado di tutela”.

In particolare, il giudice dovrà valutare se la malattia psichica sopravvenuta sia compatibile con la permanenza in carcere del detenuto oppure richieda il suo trasferimento in luoghi esterni (abitazione o luoghi pubblici di cura, assistenza o accoglienza) con modalità che garantiscano la salute, ma anche la sicurezza. Questa valutazione dovrà quindi tener conto di vari elementi: il quadro clinico del detenuto, la sua pericolosità, le sue condizioni sociali e familiari, le strutture e i servizi di cura offerti dal carcere, le esigenze di tutela degli altri detenuti e di tutto il personale che opera nell’istituto penitenziario, la necessità di salvaguardare la sicurezza collettiva.

La Corte ha accolto la questione sollevata dalla Cassazione e anche il “rimedio” dalla stessa individuato, vale a dire l’applicazione della misura alternativa della detenzione domiciliare “umanitaria”, o “in deroga” (articolo 47 ter, comma 1 ter, dell’Ordinamento penitenziario), che è in grado di soddisfare tutti gli interessi e i valori in gioco. Come spiega la Corte “spetterà al giudice verificare se il detenuto, invece che rimanere in carcere, debba essere trasferito all’esterno, fermo restando che ciò non può accadere se il giudice ritiene prevalenti nel singolo caso le esigenze della sicurezza pubblica”.

Antonino Lo Re
Twitter: @AntoninoLoRe

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