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La (mancata) parità di genere in Italia. Il Paese si muove con estrema lentezza

La (mancata) parità di genere in Italia. Il Paese si muove con estrema lentezza

La 19^ edizione del “Global Gender Gap Report” ha analizzato la condizione delle donne in 148 nazioni del mondo. Lieve riposizionamento nella classifica generale, ma siamo tra le ultime ruote del carro in Europa

Il “Global Gender Gap Report 2025”, giunto alla sua 19esima edizione, analizza lo stato della parità di genere in 148 Paesi nel mondo al fine di redigere un rapporto globale e un raffronto internazionale.

Il documento si basa sull’analisi di quattro dimensioni chiave: 1) partecipazione e opportunità economiche; 2) istruzione; 3) salute; 4) benessere ed empowerment politico. Questi parametri, e i loro relativi indicatori, permettono di monitorare i progressi verso la parità di genere.

Dai risultati si evince come, a livello globale, è stato colmato il 68,8% del divario di genere, con un miglioramento di 0,3 punti percentuali rispetto al 2024. Sebbene ci siano stati progressi, nessun Paese, tuttavia, ha ancora raggiunto la parità completa. L’Islanda continua a guidare l’indice per il sedicesimo anno consecutivo, avendo colmato oltre il 90% del proprio divario di genere. Seguono, com’era da aspettarsi, la Finlandia, con un gender gap colmato all’87,9% e la Norvegia, che presenta un indice dell’86,3%. Rientrano, nella top ten il Regno Unito che, con un indice del 83,8%, si colloca quarto con un balzo di ben dieci posizioni rispetto al Report 2024, la Nuova Zelanda, che compare in quinta posizione, con un indice dell’82,7%; la Svezia con un indice dell’81,7%, al sesto posto in calo di una posizione; la Repubblica Moldava con un indice dell’81,3% al settimo posto; la Namibia che, con un indice dell’81,1%, si conferma ottava; la Germania che, con un indice dell’80,3%, si trova in nona posizione, in calo di due posti rispetto al 2024 e, infine, l’Irlanda con un indice dell’80,1% al decimo posto.

In generale, solo le prime dieci economie in classifica hanno superato l’80% del divario, la maggior parte delle quali sono europee. Seguendo questo andamento, saranno necessari 123 anni per raggiungere la piena uguaglianza di genere a livello globale. I maggiori squilibri continuano a riscontrarsi in due dimensioni, quella politica e quella economica. In particolare, ci vorranno 162 anni per colmare il divario politico e 135 anni per quello economico.

Per quanto riguarda l’Italia, si registra un lieve riposizionamento nella classifica generale, con un avanzamento di due posizioni rispetto all’anno precedente. Tuttavia, il nostro Paese si colloca all’85° posto su 148, confermandosi tra le ultime ruote del carro delle economie europee. Il dato peggiore riguarda la partecipazione economica, dove l’Italia scende al 117° posto, con un calo di sei posizioni rispetto al 2024, segnando il risultato più basso tra i Paesi europei. La situazione appare leggermente diversa nella dimensione politica, con un avanzamento dal 67° al 65° posto. Migliori i dati sull’istruzione, in cui l’Italia sale di 5 punti, dal 56° al 51° posto, mentre nella dimensione della salute si registra solo un piccolo miglioramento, con il passaggio dal 94° all’89° posto.

Questi numeri evidenziano come, nonostante alcuni segnali di progresso, la strada verso una piena parità di genere resti lunga e difficile. Per quanto riguarda la partecipazione economica e le opportunità, l’Italia è al 117° posto, con un punteggio di 0,599. Le donne partecipano al mercato del lavoro molto meno degli uomini (41,5% vs. 58,8%) e guadagnano significativamente meno. Solo il 38,8% dei ruoli dirigenziali è occupato da donne.

Per quanto concerne l’Empowerment politico, con un punteggio di 0,255 (65° posto), l’Italia è ancora indietro. Le donne in Parlamento sono il 48,7%, ma solo il 33,3% dei ministri è donna.

Sebbene si registrino lievi miglioramenti, l’Italia continua a evidenziare ampie disuguaglianze soprattutto nell’accesso al lavoro e nei vertici della politica e dell’economia. Persistono barriere culturali e strutturali, accentuate da una distribuzione ineguale del lavoro di cura (le donne occupano il 49,8% del lavoro part-time contro il 23,5% degli uomini), dalla scarsa diffusione di leadership femminili nelle imprese (solo il 15,3% delle aziende ha una Ceo donna), e da una partecipazione ancora bassa delle donne ai settori Stem (15,8%).

L’eguaglianza di genere è lungi dall’essere stata raggiunta in tanti ambiti. In base all’analisi contenuta nell’ultimo Rapporto Anvur, negli ultimi venticinque anni, nonostante il numero delle studentesse donne che ha intrapreso un percorso di istruzione universitaria “sia aumentato, in misura significativa, si evince un divario di genere per quanto concerne le posizioni apicali nelle carriere accademiche dove il numero delle donne, pur aumentando negli anni, si attesta su cifre inferiori”.

Quel che appare specificatamente manifesta è la disparità nella composizione di genere, considerando i dati relativi ai Professori ordinari (Po) e ai Professori associati (Pa), dove a prevalere sono gli uomini. “Osservando – si legge nel rapporto – la composizione di genere dei Professori ordinari, associati (…) vediamo come le donne appartenenti alla categoria dei Professori ordinari si attestano intorno al 27% , mentre le donne nella categoria dei Professori associati sono in aumento, ma si fermano al 42,3%”.

Anche il Rapporto AlmaLaurea 2024 sulla Condizione occupazionale dei laureati registra ancora una volta significative e persistenti disuguaglianze di genere. Su tale aspetto AlmaLaurea ha sviluppato un approfondimento ad hoc evidenziando che tra i laureati di secondo livello, a cinque anni dal conseguimento del titolo, le differenze di genere, in termini occupazionali, si confermano significative e pari a 3,4 punti percentuali: il tasso di occupazione è dell’86,8% per le donne e del 90,2% per gli uomini. A dieci anni dal conseguimento del titolo tra le donne sono meno diffusi i contratti alle dipendenze a tempo indeterminato (49,9% rispetto al 56,1% degli uomini), mentre risultano più frequenti i contratti a tempo determinato (17,0% rispetto al 9,9% degli uomini).

È naturale che queste differenze siano legate anche alle diverse scelte professionali maturate da uomini e donne; queste ultime, infatti, tendono più frequentemente a inserirsi nel pubblico impiego e nel mondo dell’insegnamento, notoriamente in difficoltà nel garantire, almeno nel breve periodo, una rapida stabilizzazione contrattuale.

Le differenze di genere si confermano anche dal punto di vista retributivo, si parla del cosiddetto Gender pay gap. A cinque anni dal titolo, tra i laureati di secondo livello che hanno iniziato l’attuale attività dopo la laurea e lavorano a tempo pieno, le donne dichiarano di percepire 1.711 euro netti mensili, rispetto ai 1.927 euro degli uomini, con un differenziale del 12,6%. I dati evidenziano differenze anche rispetto al tipo di professione svolta: a cinque anni dal titolo svolge un lavoro a elevata specializzazione (compresi gli imprenditori e l’alta dirigenza) il 63,1% delle donne e il 65,9% degli uomini.

I dati del Wef confermano che l’Italia si muove troppo lentamente verso la parità. Mentre altri Paesi europei scalano la classifica (come il Regno Unito, che guadagna dieci posizioni ed entra nella top 5), l’Italia resta nella seconda metà del ranking globale, superata anche da economie emergenti. Anche secondo le stime della Commissione europea (Women in Digital Scoreboard) l’Italia si trova in ritardo rispetto a tanti altri paesi europei nell’inclusione delle donne nell’uso di Internet, nelle competenze digitali e nelle carriere e imprenditorialità digitali; l’Italia si è collocata al ventunesimo posto su ventotto Paesi.


Pina Travagliante
Professore ordinario di Storia del pensiero economico dell’Università degli Studi di Catania