“Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la SECONDA Repubblica in quattro e quattr’otto. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.
È impressionante come basti aggiungere un’unica parola alla più famosa frase del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, per far sì che sembri scritta apposta per raccontare non l’Italia preunitaria, bensì quella di 132 anni dopo, segnata dall’inchiesta di Mani pulite e da Tangentopoli.
Si è sempre cercato di spacciare il gattopardismo per una faccenda esclusivamente siciliana, ma Tomasi descrisse la crisi di sopravvivenza del suo ceto, quello nobiliare, e, anche con Tangentopoli, è sempre dell’adattamento all’ambiente e del trasformismo di certe classi dominanti che parliamo. Nel 1992 i nuovi nobili, i privilegiati, prosperavano in quel Nord ricco che aveva nella Milano da bere la sua capitale. Le industrie ungevano gli ingranaggi della politica con fiumi di denaro che viaggiava dentro anonime valigette. Poi venne un pm ch’era un ex poliziotto e sapeva usare il computer e il meccanismo si bloccò.
Tutti, come oggi disquisiscono di proteine spike e vaccini, parlavano, allora, nei bar della dazione ambientale di Antonio Di Pietro. Quella che, sosteneva il pm, annullava la distinzione prevista dal Codice penale, tra corrotto (chi accetta la tangente) e concussore (chi la pretende), per “una situazione oggettiva – scrisse Tonino – in cui chi deve dare il denaro non aspetta più nemmeno che gli venga richiesto”.
Ben presto si sarebbe scoperto che il Sistema Milano della corruzione s’era diffuso come un cancro in tutto il Paese e non riguardava solo la politica. Furono settanta le Procure italiane che, nel cosiddetto “biennio magico”, avviarono inchieste su fenomeni corruttivi per un totale di oltre dodicimila avvisi di garanzia. Nessuno sembrava essere rimasto immune dal contagio della corruzione: a metà del 1994 l’inchiesta Fiamme sporche coinvolse ottanta uomini della Guardia di Finanza.
La cosiddetta Prima Repubblica si dissolse come neve al sole: il 9 febbraio del 1994 Craxi lasciò la segreteria del Psi a Giorgio Benvenuto. Sedici giorni dopo fu Giorgio La Malfa a dimettersi da segretario del Pri ed entro marzo a lasciare rispettivamente la guida del Pli e quella del Psdi furono Renato Altissimo e Carlo Vizzini. Il 23 giugno, infine, Mino Martinazzoli decretò la fine della Democrazia cristiana, dopo che, a inizio marzo, Ciriaco De Mita era stato costretto a dimettersi dalla presidenza della Bicamerale per le Riforme a causa dell’inchiesta sul fratello Michele, coinvolto nell’Irpiniagate.
Il resto della storia la troverete narrata in queste pagine da personalità di grande rilievo: un giornalista del calibro di Gianni Barbacetto, un economista d’impresa come Marco Vitale e un magistrato-simbolo della lotta alla mafia e alla corruzione in Sicilia: Felice Lima.
Leggerete dell’entusiasmo di chi vide in Mani pulite la possibilità di fare di quella italiana una democrazia finalmente compiuta e della delusione per l’occasione sprecata, nell’osservare che tutto era cambiato. Ma tutto era rimasto com’era.
L’uomo che, quel pomeriggio del 17 febbraio del 1992, venne arrestato mentre intascava una tangente aprendo la strada all’inchiesta Mani pulite ha oggi 78 anni. Mario Chiesa, milanese, laureato in ingegneria elettrotecnica nel Politecnico meneghino, sedette prima nel Consiglio provinciale di Milano divenendo capogruppo del Psi, poi fu assessore comunale per due volte tra il 1980 e il 1986, divenendo infine presidente del Pio Albergo Trivulzio.
Era stato il principe Antonio Tolomeo Gallio Trivulzio, prima di morire nel 1767, a destinare la sua residenza a ospedale per anziani poveri. Dopo l’Unità d’Italia vi confluirono l’associazione Martinitt (plurale di martinin, orfano in dialetto milanese) fondata nel Cinquecento da San Girolamo Emiliani, e un’istituzione per orfanelle, Stelline. Nel 1910 venne completata una seconda sede lungo la via che conduceva alla frazione di Baggio. Per cui gli orfanelli diventarono i martinitt della Baggina. E Chiesa sarebbe stato bollato come il poeta della Baggina da Fabrizio De Andrè nella canzone La domenica delle salme.
Nemmeno Bettino Craxi fu tenero con Chiesa, definendolo, dopo l’arresto, “un mariuolo isolato” in un Psi integro. Finì che Chiesa, dopo cinque settimane di carcere, parlò e i socialisti furono spazzati via. Craxi, ricevuta una ventina d’avvisi di garanzia, si dimise da segretario l’11 febbraio del 1993. Il 29 aprile parlò alla Camera accusando tutti i partiti d’incassare tangenti e l’Aula concesse l’autorizzazione a procedere solo per quattro dei sei procedimenti che lo riguardavano. L’indomani Craxi fu colpito da una pioggia di monetine davanti all’Hotel San Raphael. Nel maggio dell’anno successivo la fuga ad Hammameth, in Tunisia, dove sarebbe morto.
Nell’inchiesta su Chiesa decisive furono le rivelazioni dell’ex moglie dell’ingegnere, Laura Sala, che gli aveva intentato causa per ottenere cifre più alte per il mantenimento e che fece scoprire diversi conti miliardari in banche svizzere intestati anche a prestanome.
Chiesa, condannato a sei anni in primo grado, aveva avuta ridotta in appello la pena a cinque anni e quattro mesi e la Cassazione aveva confermato. Ma sarebbe tornato libero già nel gennaio del 1996 per via del “contributo eccezionale” alle indagini. Per poco, però: entrato nella Compagnia delle Opere, gli imprenditori di Comunione e Liberazione, fu nuovamente arrestato nel marzo del 2009 perché ritenuto il collettore delle tangenti nel traffico illecito di rifiuti in Lombardia.
Una curiosità: i sette milioni di lire della tangente incassata da Chiesa erano stati posti da Luca Magni, proprietario di una piccola impresa di pulizie, in una valigetta venduta nel 2007 a un’asta che aveva come banditore don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele. L’asta si svolse in occasione di un raduno organizzato dalla trasmissione radiofonica della Rai Caterpillar e il ricavato andò proprio a Libera, l’associazione contro le mafie costituita nel 1994.
Per la cronaca, la valigetta fu acquistata dal sindaco di Senigallia Luana Angeloni per ben cinquemila euro. Più della tangente stessa.
“Tangentopoli non è mai terminata, è anzi divenuta uno stile di vita con cui gli italiani hanno imparato a convivere grazie a modelli distorti imposti dalla classe politica e celebrati da un’informazione sempre meno indipendente”. Questo il testo del post pubblicato il 15 febbraio dello scorso anno sulla propria pagina Facebook da Antonio Di Pietro, che oggi, a 71 anni sembra aver deciso di ritirarsi definitivamente nella sua masseria molisana. In silenzio.
Così, alla nostra richiesta di parlare del trentennale dell’arresto di Chiesa e di Mani pulite ha risposto: “Da oltre un anno non rilascio più dichiarazioni pubbliche”.
Ma risuona chiaro quell’ultimo messaggio di un uomo che per moltissimi italiani non è stato semplicemente un magistrato, non solo un uomo politico, ma un autentico simbolo. Durante i due anni dell’inchiesta le armi migliori di Di Pietro erano state il metodo investigativo – era un ex poliziotto – e la rapidità che gli consentiva la conoscenza degli strumenti informatici. I risultati arrivavano, i politici confessavano e si dimettevano, i cittadini, ammaliati dai suoi “che c’azzecca?” gli perdonavano qualche tecnicismo giudiziario, come la dazione ambientale. Per due anni, nei bar, nei mercati, non si parlava più di calcio o gossip, ma di corruzione, arresti, tangenti. Gli italiani amavano Di Pietro e si identificavano in lui anche per i suoi modi spicci e la semplicità del suo linguaggio.
Poi, nel pomeriggio del 6 dicembre del 1994, lo choc, dopo la breve sigla del Tg1 edizione straordinaria, Bruno Vespa annunciò: “Antonio Di Pietro si è dimesso dalla Magistratura con una lettera al procuratore Borrelli”, spiegando di voler “spersonalizzare l’inchiesta Mani pulite”.
Soltanto nel 2009, nel corso della trasmissione della Rai Annozero, avrebbe rivelato a Michele Santoro di esser stato fatto espatriare, con un nome di copertura, in Costa Rica, a seguito di un rapporto riservato del Ros dei Carabinieri che, pochi giorni prima della strage di via D’Amelio a Palermo, in cui morì Paolo Borsellino, indicava Di Pietro come probabile obiettivo di un attentato.
A due anni dalle dimissioni, tra i rumors che lo davano per ministro di Berlusconi, dopo le elezioni dell’aprile del 1996, Di Pietro divenne ministro dei Lavori pubblici del Governo Prodi. Dimettendosi sei mesi dopo uno dei tanti avvisi di garanzia. Dieci processi affronterà, per complessivi ventisette capi d’accusa, sempre prosciolto “perché il fatto non sussiste”.
Nel 1997, candidato per l’Ulivo nelle suppletive del collegio senatoriale del Mugello, Di Pietro sbaragliò gli avversari – tra i quali Giuliano Ferrara – ottenendo il 67,8% dei voti. E cominciò a pensare a una sua formazione politica, quell’Italia dei Valori che nascerà il 21 marzo del 1998, a Sansepolcro e nelle politiche del 2006 otterrà il 2,3% alla Camera e il 2,9 al Senato. In maggio Di Pietro lascerà l’Europarlamento diventando ministro delle Infrastrutture nel secondo Governo Prodi.
Nel 2014 lascerà la presidenza di IdV. Poi una serie di piccole iniziative politiche. E il definitivo ritiro.