Mare inquinato, in Sicilia sventola bandiera rossa. Solo 7 località sostenibili, un quarto della Liguria - QdS

Mare inquinato, in Sicilia sventola bandiera rossa. Solo 7 località sostenibili, un quarto della Liguria

Rosario Battiato

Mare inquinato, in Sicilia sventola bandiera rossa. Solo 7 località sostenibili, un quarto della Liguria

mercoledì 08 Maggio 2019

La Sicilia, nonostante abbia il più lungo litorale balneabile (920 km), sconta la mancata depurazione e l’abusivismo

PALERMO – L’esagerato numero di chilometri di coste balneabili, circa un quinto del totale nazionale, non basta. La Sicilia (sette località premiate) si conferma sul fondo della classifica dell’assegnazione delle bandiere blu, ottenendo un risultato di quattro volte inferiore rispetto alla regione più premiata, la Liguria (30 località), che di costa balneabile ne ha una superficie di un terzo inferiore. Merito anche della cattiva depurazione e di altre aggressioni alla costa siciliana.

LE BANDIERE BLU: PREMIO PER TURISMO SOSTENIBILE
Anche quest’anno, la Foundation for environmental education (Fee) – un’organizzazione internazionale non governativa e non-profit con sede in Danimarca che vanta tra i propri partner l’Onu e, per l’Italia, il ministero dell’Ambiente e quello delle Politiche agricole – ha assegnato i riconoscimenti che premiano quei Comuni rivieraschi particolarmente attenti alla gestione del territorio e all’educazione ambientale per preservare l’ambiente e promuovere un turismo sostenibile. Sono stati 183 i Comuni italiani premiati, che hanno coinvolto 385 spiagge, circa il 10% delle spiagge premiate a livello mondiale.

I criteri presi in considerazione sono stati diversi, tra questi – si legge nella nota – l’esistenza ed il grado di “funzionalità degli impianti di depurazione; la percentuale di allacci fognari, la gestione dei rifiuti con particolare riguardo alla riduzione della produzione, alla raccolta differenziata e alla gestione dei rifiuti pericolosi; le iniziative promosse dalle Amministrazioni per una migliore vivibilità nel periodo estivo; la valorizzazione delle aree naturalistiche eventualmente presenti sul territorio; la cura dell’arredo urbano e delle spiagge; la possibilità di accesso al mare per tutti senza limitazioni”. Elementi che in Sicilia sono discretamente carenti.

LA SICILIA CRESCE MA NON BASTA
Rispetto allo scorso anno, la Sicilia può vantare una località in più che la porta a sette le bandiere. La nuova arrivata è Pozzallo, che si va ad aggiungere alle confermatissime Marina di Ragusa, Santa Teresa di Riva (lungomare), spiaggia Lampare di Tusa, spiaggia Acquacalda di Lipari, spiaggia Ciriga (I° tratto) di Ispica e alla spiaggia Lido Fiori Bertolino di Porto Palo di Menfi. Tra gli approdi turistici, inoltre, spunta anche un altro nome isolano: Marina del Nettuno, in provincia di Messina. Il piccolo passo in avanti rispetto allo scorso anno non lascia grandi margini per esultare: in cima alla graduatoria c’è la Liguria con 30 località e 3 nuovi ingressi, segue la Toscana con 19 località, stabile la Campania rimane a 18 Bandiere, mentre a 15 località seguono le Marche, che ne perdono due e ne aggiungono una.
Nella top five si colloca anche la Sardegna, con 14 località, e quindi la Puglia, a 13, e poi la Calabria a 11 e l’Abruzzo a 10. L’Isola è tra le ultime pur avendo, con circa 920 chilometri di costa balneabile, il più lungo litorale balneabile d’Italia, pari a circa un quinto del totale nazionale. La Liguria di costa complessiva ne ha praticamente un terzo della Sicilia, eppure vanta più del quadruplo delle località coinvolte.

DEPURAZIONE: IL MALE SICILIANO
A limitare la diffusione delle bandiere blu è certamente il ben noto caso della depurazione isolana. Un problema ben evidenziato dalle quattro procedure di infrazione comunitaria che coinvolgono complessivamente circa 250 agglomerati siciliani che risultano essere ancora fuori norma.

La più antica è la 2004/2034 che riguarda agglomerati con carico generato superiore a 15 mila abitanti equivalenti che si trova già in sentenza di condanna (19 luglio 2012) e riguarda 110 agglomerati isolani, pari al 63% di quelli coinvolti a livello nazionale. La procedura 2009/2034, per gli agglomerati con carico generato superiore a 10 mila abitanti equivalenti che scaricano in aree definite “sensibili”, è in sentenza di condanna (10 aprile 2014) per 41 agglomerati nazionali, di cui 5 siciliani (5% del totale).
La terza, la 2014/2059, si riferisce agli agglomerati con carico generato superiore a 2 mila abitanti equivalenti per 817 agglomerati e 32 aree sensibili, 175 in Sicilia, cioè il 21% di tutti quelli considerati in infrazione. L’ultima è la 2017/2181 per 15 regioni e 276 agglomerati sopra i 2 mila abitanti. Lo scorso 27 febbraio la Giunta regionale ha approvato la deliberazione n.80 relativa al “Servizio idrico integrato – Finanziamento per l’adeguamento delle reti e per la depurazione” per sbloccare progetti un valore di 300 milioni di euro, anche se, intanto, la Regione paga: una stima degli uffici, contenuta nel documento sullo stato di attuazione della governance, ha stimato che le sanzioni comunitarie per la mancata depurazione costeranno alle casse regionali, dato il diritto di rivalsa esercitato dallo Stato, 97 mila euro al giorno dal 2012, qualcosa come 247, 8 milioni di euro.

GLI ALTRI MALI DEL NOSTRO MARE
Non c’è solo la depurazione a preoccupare. Il mare isolano è anche nel mirino del cemento, spesso quello abusivo. L’Isola è, assieme alla Puglia, la più coinvolta dalla cementificazione della costa: oltre 7 edifici per kmq sulla prima fascia costiera. Paolo La Greca, presidente regionale Inu (Istituto nazionale di urbanistica), all’interno dell’ultimo rapporto sul territorio, incorona la Sicilia “come la regione con la percentuale maggiore di suolo consumato lungo la fascia costiera” che peraltro concentra la maggior parte del “carico antropico connesso agli usi insediativi, alle infrastrutture, alle attrezzature turistiche e con evidenti casi di edilizia abusiva”.


Divieto di balneazione in 45 chilometri di costa
Tra le province più colpite Messina, Palermo e Siracusa

PALERMO – Anche quest’anno è arrivato puntuale il decreto dell’assessorato della Salute che certifica i tratti di costa vietati per inquinamento. Complessivamente si tratta di circa 45 chilometri, senza ovviamente considerare la porzione interdetta per altre ragioni come la presenza di aree portuali, le immissioni a mare di fiumi e torrenti o altre ragioni di sicurezza.

Tra le province più coinvolte, anche per l’ampiezza del litorale, ci sono certamente Messina – 13 i tratti di costa interessati dal divieto per inquinamento e valgono circa 9,5 chilometri – e Palermo, con 17 zone interessate per circa 20 chilometri di costa.

Sul podio anche Siracusa, con 4 punti che valgono 4 chilometri complessivi. Meno coinvolte tutte le altre, con Catania che si prende il quarto posto del mare vietato in coabitazione con Agrigento: nell’area etnea 13 punti vietati, una decina nell’agrigentino, circa 3,4 chilometri vietati per provincia.

Poco meno di 2 chilometri i tratti vietati nel nisseno, tutti nel territorio del Comune di Gela, mentre sono 3 punti nel ragusano che valgono circa mezzo chilometro di spiaggia tra il comune del capoluogo, Acate e Vittoria. Chiude Trapani con tre zone, tra cui Alcamo, Valderice e Favignana, per 1,7 chilometri vietati.


Senza politiche ambientali cresce anche la pressione del turismo

PALERMO – Per una Regione a vocazione turistica sarebbe opportuno sperimentare formule di sostenibilità ambientale che consentano di resistere alle pressioni ambientali dei flussi esterni. A dimostrare il peso specifico dei turisti, ci ha pensato l’Istat, realizzando un rapporto che appunto considera l’offerta turistica, il consumo turistico interno e le pressioni ambientali, cioè le emissioni atmosferiche che causano effetto serra.
I principali risultati dello studio, relativi al 2015, riportano che le attività turistiche “rappresentano il 10,4% della produzione dell’economia italiana” mentre “il contributo delle stesse attività alle emissioni di gas serra e agli impieghi di prodotti energetici, 6,3% circa in entrambi i casi, è più contenuto di quello fornito alla produzione complessiva, mentre il peso delle attività turistiche sulle emissioni totali di sostanze acidificanti e che determinano la formazione di ozono troposferico è, rispettivamente, del 17,3% e del 19,2%”.
Andando in dettaglio, e facendo riferimento soltanto alla quota turistica, cioè quelle attività direttamente attribuite al turismo, il contributo alla generazione di emissioni — 4,6% per l’effetto serra, 14,3% per l’acidificazione e 15,3% nel caso dell’ozono troposferico — e all’impiego di prodotti energetici (4,2%) risulta sempre superiore al peso sulla produzione complessiva, pari al 3,5%.
Altri due indicatori sono l’“intensità di emissione” e l’“intensità energetica” delle attività turistiche, misurate come rapporto tra emissioni o impieghi di prodotti energetici e produzione. Complessivamente le emissioni di gas climalteranti mantengono un’intensità di “emissione inferiore rispetto a quella delle attività che non rientrano nel perimetro del settore (65 mila tonnellate di CO2 equivalente per miliardo di produzione rispetto a 113 mila tonnellate circa)”, mentre l’intensità di emissione di sostanze acidificanti o che determinano la formazione di ozono troposferico “risulta più elevata nel caso delle attività turistiche nel loro complesso rispetto alle altre tipologie di attività produttiva”.

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