In tempi come quelli odierni, in cui riteniamo di avere una qualche rilevanza instagrammandoci con la tessera elettorale (non per spingere gli altri al voto, ma posizionandoci come quelli “civili”), ci si chiede che spazio avrebbe avuto un uomo come Mario Rapisardi (1844-1912), a Catania nato e a Catania morto. Un uomo di lettere dal carattere a quanto pare ispido, che non apprezzava nessuno, detestando ogni tipo di posa. Uno che forse merita più di una città che gli ha dedicato giusto una scuola rendendolo immortale nella bocca dei cittadini, mentre i programmi educativi (in città, ma non solo) spesso volgono lo sguardo altrove, quando si parla di lui. Tanto che il Viale che porta il suo nome lo si chiama solo Viale.
Un godibile articolo per The Sicilian Post scritto da Joshua Nicolosi puntualizza come del Vate Etneo (aka Rapisardi) si “tende spesso a sottolineare la spigolosità del carattere”, e viene quasi voglia di abbracciare il bravo Nicolosi e complimentarsi con lui per il candore. Ma magari ci ricordassimo ancora del carattere dei grandi poeti, ma magari ci ricordassimo ancora che i poeti sono stati poeti, pure girato l’angolo di casa nostra.
Il gossip di Mario Rapisardi
Dato che non sappiamo niente su alcun argomento, di Rapisardi ignoriamo anche il gossip più tormentato, ovvero: la liaison tra sua moglie, la scrittrice toscana Giselda Fojanesi, e il di lui nemico amatissimo Giovanni Verga. Giunta in Sicilia, la colta Fojanesi (scrittrice di talento e amica di personalità come Matilde Serao e Ferdinando Martini) si era ritrovata in un ambiente ostile e provinciale rispetto ai salotti fiorentini, trovando nella sensibilità del Verga l’unico rimedio a un marito dal carattere impossibile e a una suocera dalla mentalità ristretta – le cose non cambiano mai, noi continuiamo a non sapere niente su nulla, e le malesoggere sono le stesse di cento e rotti anni fa. Verga, alla Fojanesi, avrebbe dedicato una delle Novelle Rusticane (la meravigliosa “Di là del mare”) mentre Fojanesi, dopo la rottura del matrimonio con il Vate, avrebbe avuto una carriera invidiabile nell’ambito della scrittura e dell’insegnamento, ma queste sono altre storie.
Aveva un carattere impossibile e ostico, Mario Rapisardi. Non gli piaceva nessuno se non sé stesso, e non aveva intenzione di piacere, a prescindere dal suo matrimonio disastroso. Come tanti di quelli dotati di animo così, però, schifava tutti pur desiderando essere amato. L’animo non conformista non lo aveva introiettato da nessuno, sebbene amasse autori seminali come Alfieri e Leopardi, di quest’ultimo grande ammiratore, tanto da cambiarsi il cognome da “Rapisarda” a “Rapisardi” per cercare una facile rima con quello del recanatese.
Rapisardi oggi non troverebbe facile collocazione nel bouquet di intellettuali o content creator che parlano tronfi davanti a un telefonino che fa i video, dato che secondo lui “di notevole non c’è nulla, nella mia vita, se non forse questo, che ben o male, mi son formato da me”. Qualcosa di simile la scriverebbero dei mitomani su social network passati di moda, non di certo uno che, adolescente, scrive odi a Sant’Agata e inni risorgimentali, che pubblica un primo volume di versi a nemmeno vent’anni, poco prima di iniziare a frequentare i salotti letterari fiorentini, dove incontra figure come Aleardo Aleardi e Francesco Dall’Ongaro. Quello stesso Rapisardi che con Dio e la religione ha un rapporto complesso: quando nel 1868 firma il poema “La Palingenesi”, che a Catania gli procura una medaglia d’oro e la cattedra di letteratura italiana all’Università, il Vate sogna il ritorno a un cristianesimo puro, del tutto emendato dalle sozzure della corruzione.
Sia principio da te, luce inconsunta/Di Verità: coeva a Dio tu splendi/Per la notte dei tempi, e tu mi svela
Per che lunga d’inganni ombra si trasse/La traviata umanità soffrente/Quando, stolta, obliò la sua celeste
Origine, sul suo capo infelice/ La giusta provocando ira di Dio.
Negli anni il rapporto rapisardiano con la religione e chi la amministra si fa sempre più complesso: quando nel 1877 pubblica il poema “Lucifero”, a Milano, si inimica addirittura l’arcivescovo di Catania che l’indice avrebbe sognato, per l’opera. Rapisardi, che intanto si è procurato addirittura la stima di Victor Hugo, esalta la razionalità sulla superstizione e l’oscurantismo, con la scienza e il progresso portatrici sane di una nuova verità che si mangia l’ipocrisia del clericalismo più sfrontato.
Nel Canto XI di “Lucifero” il repubblicano Rapisardi non risparmia una stoccata allusiva nei confronti di Giosuè Carducci (“idrofobo cantor, vate da lupi”), reo d’essersi avvicinato troppo alla monarchia in età matura. Proprio con Carducci il catanese avrebbe avviato un’acidissima faida consumata a suon di versi in opere sparse qua e là, in cui il premio Nobel definisce Rapisardi “vil catanese”, e molte altre cattiverie ricambiate (sarebbe bello approfondire di più, sarebbe stato più bello però se qualcuno avesse ficcato Rapisardi nei programmi scolastici anziché affidarsi ai giornali).
A Mario Rapisardi non piace praticamente nessuno, né Carducci né la Chiesa né molti dei suoi colleghi più illustri, ma è un formidabile traduttore (Lucrezio, Catullo ma pure Shelley) e un uomo che conosce la polemica e le sfumature. Sa di essere molto amato dai suoi concittadini per la sua vis polemica, è adorato dagli studenti, ma la sua satiresca visione del futuro gli fa comprendere che, come nei confronti di Dio, la fiducia e la speranza le si possono smarrire pure verso i letterati polemisti. Mentre altri assurgono al rango di immortali, Rapisardi abbraccia la causa socialista, e nella parte tardo-ottocentesca della sua carriera esalta ancora di più la forza della scienza ma anche la classe lavoratrice, sfruttata dai più potenti, e la disperazione degli ultimi (la raccolta di poesie “Giustizia” e il poema “Giobbe”, in questo, sono alcuni degli esempi più significativi).
Fino a definirsi lui, Vate Etneo, nel poema “L’Atlantide” (“Quel disdegnoso in su la tolda ritto (…) È il vate etneo, che come spada ha dritto/L’animo, ardente il cor, le rime pronte”) del 1894, avendo ormai capito di non poter più accedere agli scrigni della leggenda ma solo al sapere degli studiosi e di sparuti appassionati, senza tuttavia essersi mai arreso all’idea di percepirsi come il migliore, o meglio: quello che ci aveva visto più a lungo di tutti, con il decadimento, le ipocrisie, e i vezzeggiamenti di una società che si fa bella senza riconoscere che sta marcendo, in cui forse pure gli intellettuali devono comprendere bene quali sono le loro reali missioni.
Rapisardi muore nel 1912 dopo aver fatto sapere a Filippo Tommaso Marinetti che del Futurismo non gliene importava un fico secco perché l’obbligo del poeta non è quello di aderire a movimenti o scuole ma di esprimersi con sincerità. Su di lui, in città, il duello tra oblio e rimembranza si è sempre giocata sul nome. Mario, che desiderava essere ricordato, è continuamente in bocca ai catanesi, per via della scuola di Viale Vittorio Veneto; quegli stessi catanesi che, in un gioco assurdo di sceneggiature che la vita crea, il nome e il cognome glielo tolgono in riferimento a un altro Viale, forse il più famoso della città, chiamato come lui. Sono i catanesi, bellezza.

