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Massimo Ghini porta Dino Risi nei teatri siciliani: “Il palco è come una partita di calcio”

Massimo Ghini porta Dino Risi nei teatri siciliani: “Il palco è come una partita di calcio”
Massimo Ghini (foto Porcarelli)

L’attore sarà protagonista de “Il vedovo” nell’adattamento di Ennio Coltorti e Gianni Clementi del celebre film di Dino Risi

PALERMO – Fumantino e rugantino. Ha vissuto l’ultima coda del cinema lavorando con Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Ugo Tognazzi. Attore poliedrico, doppiatore, autore e figura pubblica attiva anche nel campo sindacale e politico, Massimo Ghini incarna da oltre quarant’anni una delle colonne portanti della recitazione italiana. Con la splendida Galatea Ranzi al suo fianco, è protagonista in teatro de ‘Il vedovo’, di cui firma anche la regia. Prodotto da Nuova Enfi Teatro, Nuova Artisti Riuniti e Il Parioli, l’adattamento di Ennio Coltorti e Gianni Clementi del celebre film di Dino Risi arriva sul palcoscenico di Sicilia.

Inserito nella stagione teatrale Turi Ferro, lo spettacolo verrà rappresentato dal 29 novembre al 14 dicembre 2025 all’Abc di Catania, con una imperdibile tre giorni – dal 9 all’11 dicembre 2025 – al Golden di Palermo. “La Sicilia è una terra che ho frequentato per lavoro, per svago, per viaggi, per progetti, per film, per televisione… L’ho girata in lungo e in largo ma, quando arrivo sull’isola, ho come una sensazione di commozione, una dolce malinconia. Affiora un sentimento strano che non provo da altre parti. Mi ricordo dalla prima volta – ero bambino – quando da Roma atterrai a Punta Raisi. Il giro attorno alla montagna, come si faceva allora, bello e pericoloso, e poi tutta quella luce… Una luce che mi è rimasta negli occhi”.

Sul palco, invece, tutti gli sguardi sono puntati su di lei mentre si dirige ne ‘Il vedovo’, un omaggio a un capolavoro degli anni Cinquanta con un ritorno al grande divertimento all’italiana.
“Per tanto tempo, troppo, invece di pensare alla nostra storia, da dove arrivavamo e il bagaglio culturale che ci portavamo dietro, era tutta una corsa a imitare artisticamente quanto veniva fatto dagli altri all’estero. Poi, per fortuna, abbiamo recuperato e, magari, in qualcosa siamo stati dei maestri. Sicuramente, la commedia all’italiana è un nostro fiore all’occhiello che dovremmo riprendere a coltivare con grande cura e convincimento”.

Interpreta il ruolo del grande Sordi proponendo il ‘suo’ Alberto Nardi. Un personaggio ambizioso quanto disastroso, che studia improbabili piani per sbarazzarsi della moglie ed ereditarne i capitali. Nell’Italia perbenista dell’epoca si gridò allo scandalo.
“Marco Risi, mio grande amico, figlio di Dino, mi riferì che, quando uscì il film, suo padre ci rimase molto male perché la critica, più dichiaratamente cattolica dell’epoca, lo aveva attaccato, in quanto l’idea centrale del racconto è il tentativo, seppur maldestro e comico, di un femminicidio”.

Una risata che diventa dannatamente amara se ripensiamo alla nostra società, divenuta mostruosamente spietata.
“Quando mi è stata fatta la proposta di questo testo, ne ho riconosciuto subito la grandissima contemporaneità. Una sfida nei confronti di quello che stiamo attraversando oggi, con più attenzione, per fortuna, nel tentativo di rimettere a posto, anche dal punto di vista legale, quest’atroce vergogna della violenza perpetrata sulle donne”.

Nei panni dell’onorevole-violentatore era perfetto. Ma, quel ruolo in ‘Compagni di scuola’, l’ha segnata per anni.
“Carlo Verdone, lo ringrazio ancora oggi, perché Valenzani mi ha dato la prima grossa notorietà. Ma quella parte mi è costata. Andavo in giro, entravo nei bar, e c’era sempre qualcuno che mi manifestava il suo fastidio, ‘lo sa che mi stava veramente sul cazzo?’. E ogni volta a ripetere: ‘Non sono io, è il personaggio!’”.

Insieme ad Andrea Occhipinti e Fabrizio Bentivoglio veniva inserito tra i belli. La fama del seduttore le ha creato qualche problema alla carriera?
“Ho debuttato all’Odéon di Parigi con Re Lear di Shakespeare. Vengo dal Piccolo di Milano con Giorgio Strehler, dall’Amleto con Lavia, dall’Otello con Gassman, da Maria Stuarda con la regia di Zeffirelli. Un mondo che non era rappresentato dalla mia fisicità o dal fatto che io fossi considerato nella lista dei belloni italiani. Ma si vive di stereotipi e il ruolo da seduttore era incongruente rispetto a quello che appariva. Poi, grazie a Giorgio Capitani e alla fiction della Rai dedicata a papa Giovanni, è cambiata la percezione di me, più profonda”.

L’attore deve rischiare, i ‘colonnelli’ del cinema italiano ce lo hanno insegnato.
“Ho fatto talmente tanti personaggi, alcuni – a mio giudizio – davvero straordinari proprio in Sicilia: la vittima di un gioco mafioso in ‘Una storia semplice’, tratto dal romanzo di Sciascia, con Gian Maria Volonté; il protagonista maschile de ‘La sposa era bellissima’ con Stefania Sandrelli e Angela Molina; il coprotagonista, insieme a Cesare Bocci, de ‘Il vizietto’, basato sull’omonimo film con Ugo Tognazzi e sul successo teatrale di Broadway. Durante una replica a Palermo, per sconfiggere quel pensiero di omofobia latente che aleggiava in platea, richiamai sul palco Cesare Bocci, che, dopo i ringraziamenti finali, stava già in quinta, e gli stampai un bacio sulle labbra. Il pubblico rimase sbigottito. Qualcuno, più o meno ironicamente, gridò ‘arruso’. Ecco, sul palco, può succedere anche questo”.

Secondo alcuni il palco è una droga potentissima. E per lei?
“Una malattia dalla quale non vorrei mai guarire. Salire sulle tavole del palcoscenico è stato il mio sogno fin dall’inizio. Torno sempre a fare cinema con grandissimo amore – ho già in cantiere tanti nuovi progetti per il futuro, ma le proposte cinematografiche dovranno collimare con il mio bisogno imprescindibile di teatro che è come una spa, come una sorta di palestra. Lo spettacolo è un esercizio psicofisico incredibile, per tensione, memoria, movimento. Il palco è come una partita di calcio, il set è guardare la partita”.

Ha vinto un Nastro d’argento per la sua interpretazione di un uomo malato di Alzheimer in ‘A casa tutti bene’, ma non disdegna i cinepanettoni. La poliedricità è uno svantaggio?
“Ho scelto la strada più difficile. Mi sono guadagnato l’indignazione di molti perché quello che ho sempre amato del mestiere è la capacità mimetica di trasformazione. E sono passato da Shakespeare ai film di Natale. Mi piace fare tutto, e forse per questo non sono ben visto dalla critica. Ma se lo fa De Niro…”.

Non ha mai vinto un David di Donatello.
“Una volta ci stavo male, oggi mi interessa molto meno. Ciò che mi continua a dare soddisfazione è il pubblico: l’affetto e la stima delle persone non hanno eguali”.

Se avesse la possibilità di rincontrare quel ragazzo che iniziava la sua carriera come animatore in villaggi turistici, che cosa gli direbbe?
“Che la vita dell’animatore nei villaggi non era per niente male. Feci tre stagioni: due in Puglia e una in Sicilia, a Brucoli, dove ho incontrato e sono diventato amico di Rosario Fiorello. All’epoca, nessuno di noi sapeva cosa ci avrebbe riservato il futuro. Quanto a me, già lavoravo in teatro, ma ero stato bocciato all’esame di ammissione all’Accademia. Fu un gran dolore”.

Poi si è rifatto con suo figlio.
“Ebbene sì, con Leonardo mi sono preso una formidabile rivincita. Sono andato sotto la sede, l’ho guardato e poi non mi sono trattenuto: ‘Scusa, ma papà deve fare una cosa’. Ho regalato il mio miglior gesto dell’ombrello: ‘Un Ghini qua ce sta!’”.

La domanda allora sorge spontanea: perché l’Accademia no e Strehler sì?
“Infatti, nel momento in cui mi prese Strehler, telefonai subito a mia madre: ‘A ma’, qualcuno si è sbagliato: o Strehler o l’Accademia’… Non dico chi, ma qualcuno si è sbagliato”.