Dopo più di trent’anni di caccia all’uomo i Carabinieri lo hanno fermato ieri. È venuto meno il sistema criminale che per tanto tempo lo ha protetto: il padrino è stato tradito o scaricato?
PALERMO – Alla fine sono probabilmente gli applausi a fare più rumore, quelli dei cittadini di Palermo che hanno salutato così i Carabinieri durante l’arresto del boss latitante Matteo Messina Denaro. Così come rumore hanno fatto le parole dei sindaci dei territori che sono stati per decenni legati al nome del padrino: dal sindaco di Castelvetrano, Enzo Alfano, che ha chiesto di non accostare più la città a “un noto latitante”, a quelle del sindaco di Salemi Domenico Venuti, per il quale l’operazione di ieri “contribuisce a spazzare via quell’aria pesante e quel puzzo di mafia che da troppo tempo soffoca la nostra terra”.
Matteo Messina Denaro, l’uomo più ricercato d’Italia, ha concluso la propria fuga ieri mattina, mentre era ricoverato sotto falso nome, Andrea Bonafede, nella Clinica La Maddalena dal capoluogo siciliano, per una terapia oncologica.
La vittoria dello Stato l’hanno definita in molti, ma soprattutto, come sottolineato dal procuratore capo di Palermo, Maurizio De Lucia, la cattura dell’ultimo stragista del periodo 1992-1993. Un modo per “saldare il debito con le vittime” di mafia di quel periodo.
Se il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha telefonato subito al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, e al comandante dell’Arma dei Carabinieri, Teo Luzi, per esprimere le sue congratulazioni per l’operazione coordinata insieme alla Magistratura, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni è subito volata a Palermo per quello che per il nostro Paese è divenuto ormai un giorno storico. Anche perché, esattamente trent’anni fa – venerdì 15 gennaio del 1993 – veniva catturato anche Totò Riina.
“È un giorno di festa per il nostro Paese – ha detto Meloni – è una grande vittoria. Mi piace immaginare che questo possa essere il giorno in cui viene celebrato il lavoro di tanti che si sono dedicati a questa causa, ed è una proposta che farò. Possiamo dire ai nostri figli che la mafia si può battere”.
“Ho detto al procuratore capo e agli investigatori – ha aggiunto – che l’Italia è fiera di loro. Noi sappiamo che questo grande risultato lo dobbiamo a loro, al loro lavoro quotidiano di grande dedizione. Possono contare sui provvedimenti del Governo, per portare avanti questa battaglia insieme. Loro sono la faccia dell’Italia migliore, noi siamo il tramite”.
“Grandissima soddisfazione per un risultato storico nella lotta alla mafia” è stata espressa anche dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che ha rivolto i suoi complimenti alla Procura della Repubblica di Palermo e all’Arma dei Carabinieri “che hanno assicurato alla giustizia un pericolosissimo latitante. Una giornata straordinaria per lo Stato e per tutti coloro che da sempre combattono contro le mafie”.
La fine della latitanza di Matteo Messina Denaro è stata definita dal sindaco di Palermo “una svolta nella lotta che le istituzioni e le Forze dell’ordine portano avanti nel contrasto al potere mafioso”, mentre l’Anci Sicilia, con il presidente Leoluca Orlando e il segretario generale Mario Emanuele Alvano hanno parlato di una Sicilia “più libera” e che “può continuare con più serenità il proprio percorso di sviluppo e riscatto da troppi anni vittima del giogo mafioso”.
Tutti d’accordo, quindi, anche se quello di ieri non può certo essere visto come un punto d’arrivo nella lotta alla criminalità organizzata. Lo ha detto, tra le righe, anche il presidente della Regione, Renato Schifani, per il quali l’arresto di ieri “è la conferma che lo Stato c’è e che prima o poi tutti i mafiosi vengono assicurati alla giustizia. Oggi tutti i siciliani onesti devono festeggiare, da domani sarà opportuna una riflessione per capire come sia stato possibile che uno dei mafiosi più pericolosi sia rimasto in circolazione per più di trent’anni”.
E a mantenere alta la guardia ci ha pensato anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che sempre da Palermo ha ricordato come nonostante quello inferto alla mafia con la cattura del superlatitante sia senza dubbio un colpo molto duro, lo Stato non ha ancora “vinto la guerra” e non ha certo “sconfitto la mafia”.
Restano quindi alcuni interrogativi che certamente verranno sciolti nei prossimi giorni, a cominciare da quelli legati alla rete che ha permesso per trent’anni a Messina Denaro di sfuggire alla cattura. Così come quelli connessi alla nuova forma che potrà assumere Cosa nostra per colmare il vuoto di potere che da ieri si è venuto a creare.
“Cosa Nostra ha già pronti nuovi capi”
“Capire cosa c’è dietro l’arresto di Matteo Messina Denaro non è facile” conferma al QdS l’avvocato catanese penalista patrocinante in Cassazione e nelle Giurisdizioni superiori, nonché fondatore e presidente dell’Associazione etnea Antimafia e legalità, Enzo Guarnera.
“Una cosa è certa – aggiunge – vi è stato un lavoro incessante durato qualche decennio sia della Magistratura che delle Forze dell’ordine di cui va dato atto e merito. Ovviamente la loro attività investigativa ha trovato degli ostacoli perché Messina Denaro ha certamente avuto protezioni molto alte, una delle quali è venuta meno proprio di recente. Ci riferiamo all’ex sottosegretario all’Interno Antonio D’Ali, di origini palermitane, definitivamente condannato dalla Cassazione a sei anni per concorso in associazione mafiosa. D’Alì era un politico che proteggeva Denaro ed era anche amico storico del padre Francesco, famoso capomafia del trapanese”.
“È anche vero – continua Guarnera – che Matteo Messina Denaro era giunto alla fine della sua corsa per via del tumore. Non è difficile pensare che, così come avvenuto per Riina, catturato per una soffiata di Provenzano, anche lui sia stato arrestato per una segnalazione di qualcuno che aveva deciso di liberarsi di un peso ingombrante. Sono convinto che già ci siano pronti i nuovi capi di Cosa nostra, che probabilmente hanno pensato che Denaro fosse fuori scena e la sua ricerca come super latitante avrebbe potuto compromettere i loro movimenti sul territorio. Aggiungiamo anche che vi è una mafia molto più elevata, che è quella che è si annida in alcuni settori della politica, dell’economia e delle istituzioni, che ha pensato che bisognasse dare un segnale”.
“In casi come questo – conclude il penalista catanese – in molti cercano di mettere il proprio cappello sulla cattura, come se fosse totale il merito di qualche partito politico o del Governo in carica. La verità è che, a differenza di quanto dichiarato dal generale Mario Mori (ex vertice dei Ros, ndr), la lotta alla mafia purtroppo non è finita con l’arresto di Denaro. Dobbiamo iniziare a occuparci dei livelli alti non ancora toccati dall’attività investigativa, proprio ciò di cui parlavano Falcone e Borsellino”.
Una storia scritta a colpi di dinamite
Dal 1993, anno in cui fu catturato il Capo dei Capi Totò Riina, “U siccu” – questo il soprannome di Matteo Messina Denaro – era divenuto il boss più potente di Cosa Nostra, nonché uno dei latitanti più pericolosi e ricercati al mondo.
Figlio del vecchio capomafia di Castelvetrano Francesco, alleato del clan dei corleonesi, già nel 1989 Messina Denaro venne denunciato per associazione mafiosa in quanto ritenuto coinvolto nella faida tra i clan Accardo e Ingoglia di Partanna. Nel 1991 si rese inoltre responsabile dell’omicidio di Nicola Consales, proprietario di un albergo di Triscina, per il solo fatto di avere insultato i mafiosi dinnanzi alla sua dipendente austriaca, al contempo l’amante di Messina Denaro. Con il padre latitante dal 1990, diventò a tutti gli effetti il reggente del proprio mandamento, e nel 1992 venne spedito a Roma per compiere appostamenti nei confronti del presentatore televisivo Maurizio Costanzo e per uccidere Giovanni Falcone. Nello stesso anno, Messina Denaro fu tra gli esecutori materiali dell’omicidio del capo cosca avverso a Riina, Vincenzo Milazzo, e pochi giorni ne strangolò anche la compagna incinta.
Dopo l’arresto di Riina, Messina Denaro fu tra i più favorevoli alla continuazione della strategia della dinamite e fornì un proprio uomo al commando che si rese protagonista degli attentati dinamitardi di Firenze, Milano e Roma. Fu sempre Messina Denaro a organizzare l’attentato fallito ai danni di Totuccio Contorno, quindi nel 1993 iniziò a tutti gli effetti la sua latitanza. Lo annunciò alla sua fidanzata, Angela, chiedendole di non credere alle stragi e ai fatti di sangue che gli sarebbero stati addebitati dai media.
Condannato all’ergastolo per diversi omicidi, tra questi quello di Giuseppe Di Matteo, il bambino sciolto nell’acido per punire un pentito, venne riconosciuto colpevole per le stragi in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nei suoi confronti venne emesso un mandato di cattura per associazione mafiosa, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materiale esplosivo, furto e altri reati minori.
Nel corso degli anni, Matteo Messina Denaro è diventato sempre più sfuggente. Più volte avvistato secondo dei testimoni ma mai finito in manette, tra depistaggi, piste false e voci di una plastica facciale che avrebbero complicato la sua individuazione, negli anni di latitanza le ricerche sono state portate avanti anche in Germania, a Pisa e a Lamezia Terme.