Un confronto su questioni strutturali e non contingenti: ospite di questo Forum con il QdS, alla presenza del direttore Carlo Alberto Tregua, il leader di “Noi Moderati”, Maurizio Lupi.
Partiamo dall’Italia e dallo stato di salute dei conti pubblici. Il ministro Giorgetti, soprattutto dopo l’approvazione del Def, ha sottolineato ripetutamente i danni che ha prodotto la gestione del Superbonus 110%. Qual è il suo punto di vista sull’argomento?
“Che ha ragione Giorgetti. E lo dico con cognizione di causa e per esperienza diretta: dal 2013 al 2015 ho ricoperto l’incarico di ministro per le Infrastrutture. Anni in cui l’Italia era sotto infrazione europea e al centro di proteste interne a causa delle difficoltà che stava vivendo proprio il mondo dell’edilizia, un settore che da sempre è uno dei ‘segnali’ dell’economia. Fu così che con la collaborazione del compianto Fabrizio Saccomanni e del collega Dario Franceschini (che ricoprivano rispettivamente i ruoli di ministro dell’Economia e delle Finanze e per i Rapporti con il Parlamento, nda) varammo un decreto, che prevedeva un bonus al 65 per cento, senza cessione del credito e con un piano di rimborso fiscale decennale. Un bonus che aveva una caratteristica fondamentale: quello della compartecipazione. Il 35 per cento del costo dell’intervento, infatti, restava in capo al cittadino che, comunque, una quota doveva mettercela. Perché questo tipo di misure funzionino è necessario che pubblico e privato cooperino. In origine l’aliquota del 110 per cento era stata pensata per consentire di scontare anche le parcelle di tecnici e professionisti. Da lì, però, il sistema è degenerato nel devastante messaggio: ‘Affrettatevi a ristrutturare perché è tutto gratis’. Una comunicazione che nemmeno Keynes avrebbe lanciato. Provvedimenti come il Superbonus 110%, inoltre, devono essere temporanei e servire a dare la stura al mercato. A essere venuti meno sono due pilastri fondamentali dell’economia liberale: il primo è il protagonismo del cittadino, che è il primo controllore affinché le cose vadano bene; il secondo è l’equità della disposizione, che è mancata sia in termini di fasce sociali che di distribuzione territoriale. Il ‘tutto gratis’ non esiste”.
Crede che se si fosse previsto un tetto ai prezzi, diventati oggettivamente molto più alti, ci troveremmo di fronte a una situazione meno grave?
“Probabilmente i danni sarebbero stati attenuati. Ciò non toglie che questo meccanismo ha fatto capire come lo sterile assistenzialismo non sia un aiuto alle imprese e all’economia ma, anzi, costituisca l’anticamera del baratro finanziario. Basti pensare che ancora oggi il Superbonus, a livello di cassa (una componente essenziale del bilancio statale, perché è quello strumento con cui vengono pagati gli stipendi, nda), divora tra i cinque e i sei miliardi di euro al mese. Aggiungo che si è trattato di un provvedimento che soltanto in apparenza ha aiutato il settore dell’edilizia, perché sono nate imprese che mai sarebbero state create e che, una volta finita la misura, hanno chiuso i battenti. Al contrario, uno dei fondamentali dell’economia è quello di generare un volano strutturale: aiutare le aziende a vincere la sfida del momento, ma anche ad andare avanti nel tempo. E di aziende che stanno chiudendo e che erano nate solo in funzione Superbonus 110 ce ne sono diverse”.
Qual è lo stato di salute della Pa in Italia? È una questione che si trascina da anni: diversi ministri hanno tentato di mettere ordine, ma quasi sempre con scarsi risultati…
“È vero. Se guardiamo alla storia, tutti i Governi che si sono succeduti, di destra, di centro o di sinistra, hanno sempre avuto nei loro programmi una legge sulle semplificazioni o il progetto di approvazione di norme finalizzate a rendere più efficiente la Pubblica amministrazione. Sul punto, però, io credo che ci sia un tema di educazione e di formazione, oltre che culturale. Chi ha studiato, sa perfettamente che il sostantivo ‘burocrazia’, riferito allo Stato moderno, non ha un’accezione negativa: con esso, si intende l’insieme dei soggetti preposti a svolgere compiti di interesse collettivo. Col tempo, però, la Pa ha finito con l’essere identificata come una forma di ‘aiutantato’ politico e per molti anni l’accesso alla carriera nel pubblico, soprattutto di giovani non allettati dalle prospettive, è stato bloccato o scoraggiato. Un altro aspetto di rilevante importanza è quello della ‘paura della firma’, che ha portato con sé la deresponsabilizzazione del funzionario pubblico. Infine, non secondario, il tema delle retribuzioni, per tanto tempo al di sotto della media del settore privato. Anche nel pubblico ‘remunerazione’ deve sempre più fare rima con ‘merito’ e ‘produttività’: un giovane che entra nella Pubblica amministrazione deve avere le medesime occasioni di un suo collega che sceglie di lavorare nel privato. In Italia spesso vogliamo tutto e subito: un modus operandi che, però, che mira alla ricerca del consenso e che fa perdere di vista i più utili obiettivi di medio e lungo periodo”.
Lei è stato Ministro per le Infrastrutture, un ambito che ha visto, negli anni, stanziare ingenti dotazioni finanziarie per il Centro e per il Nord, un po’ meno per il Sud. Ancora oggi noi abbiamo progetti come la Torino-Lione o la Galleria dei Giovi che da soli assorbono circa 30 miliardi di euro. Pensa che questo Governo riuscirà a colmare questo gap infrastrutturale tra Nord e Sud del Paese?
“In realtà il problema non è costituito dalla scarsità di risorse, ma dall’incapacità spenderle. Pensiamo, per esempio, ai fondi per il Mezzogiorno. Comunque, sotto questo profilo non è che il Nord sia messo meglio: anche lì ci impieghiamo troppo tempo per completare un’opera. Ricordo che da ministro ne parlai con l’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Ne scaturì un decreto che prese il nome di Sblocca Italia: notai, per esempio, che soltanto per le opere del Nord si usavano i poteri commissariali. Dieci anni fa vi fu un caso clamoroso, quello dell’alta velocità Bari-Napoli, una direttrice fondamentale per un Paese lungo e stretto come il nostro. I fondi erano lì, fermi, e nessuno li utilizzava perché mancava ora un provvedimento, ora una firma. Questione analoga riguardava la linea ferroviaria Palermo-Messina-Catania. Così con il Presidente Napolitano ci siamo detti: perché non nominare anche per quelli un commissario? In questo modo, come per la realizzazione dell’alta capacità Est-Ovest, analogamente dimostrammo attenzione anche per il Mezzogiorno. In ogni caso credo che il problema non siano soltanto le grandi opere, che sono quelle che comunque consentono di avere un volano di riqualificazione dei territori. Il problema è anche individuare le risorse e convogliarle verso infrastrutture strategiche, da realizzare entro tempi certi. Ma su quest’ultimo punto credo che una grossa mano la darà il Pnrr, basato sul principio secondo cui se non completi i lavori o non li realizzi del tutto, ti vengono tolti i soldi”.
Un’ultima domanda è d’obbligo: il Ponte sullo Stretto di Messina. Un’idea risalente addirittura ai tempi del Regno delle Due Sicilie, ma di cui si parla più o meno concretamente ormai da oltre mezzo secolo. Qual è la sua posizione?
“Il Ponte è un’opera indispensabile, senza ‘se’ e senza ‘ma’. La questione è che, purtroppo, finora è stato fatto poco e in ritardo. Adesso bisogna schiacciare sul pedale dell’acceleratore. Per capire quanto il Ponte sia un’opera fondamentale, è sufficiente fare un piccolo esperimento: prendiamo un’automobile e percorriamo l’Italia da Nord a Sud. Verso la fine del viaggio arriviamo a Reggio Calabria o Villa San Giovanni, dove ci accorgiamo che lì, a un tiro di schioppo, c’è Messina ma non possiamo raggiungerla se non per il tramite di un traghetto. Traghetto che ancora oggi carica dei treni che vengono sezionati, imbarcati, sbarcati e a termine corsa della nave vengono nuovamente uniti per proseguire la corsa: operazioni che portano via oltre due ore. Centoventi preziosi minuti per percorrere l’equivalente di circa tre chilometri, che è la distanza tra Calabria e Sicilia nel punto più vicino. Poi, ovvio, il progetto andrà fatto bene e realizzato con tutti i crismi, perché non dimentichiamo quello che è successo in quella zona la maledetta notte tra il 27 e il 28 dicembre del 1908. Però ciò non toglie che il Ponte vada fatto e non si può tornare indietro: già troppe volte abbiamo assistito a inaugurazioni o alla posa dei piloni e poi innestare la retromarcia”.