Carlo Cattaneo nel 1845 aveva scritto: “Infelice quella generazione che si propone d’essere in tutto come furono i suoi padri"
Le quindici storie contenute nel libro “Imprenditori e samurai” di cui abbiamo scritto in queste ultime settimane, sarebbero certamente piaciute a Carlo Cattaneo ed a Benedetto Cotrugli, i migliori cantori italiani dello spirito d’impresa e sarebbero piaciute anche ad Arturo Ferrarin, pilota vicentino e samurai ad onorem di Thiene.
Perché in esse avrebbero trovato testimonianza che lo spirito imprenditoriale è un fenomeno un po’ misterioso. Soffia quando vuole, dove vuole, nel Sud come nel Nord, e quando soffia non ci sono ostacoli che riescano a scoraggiarlo.
E troverebbe conferma quello che aveva insegnato Cattaneo: l’intelligenza (che viene prima della conoscenza) e la volontà sono i due grandi motori dello sviluppo attraverso l’impresa e non il capitale (come hanno a lungo sostenuto i professori americani) e che aveva ragione Cotrugli a dire che l’imprenditore– mercante deve sapere “tutto quello che può sapere uno homo”.
Già Carlo Cattaneo nel 1845 aveva scritto:
“Ma infelice quella generazione che si propone d’essere in tutto come furono i suoi padri. Poiché quando quelli avessero pure sfolgorato d’ogni valore e d’ogni gloria, i figli finché nulla aggiungessero alle loro imprese, rimarrebbero tanto da loro degeneri, quanto l’inerzia è diversa dall’opera, quanto l’immobilità è diversa dal moto…. Quindi è necessità, necessità morale, che ogni generazione innalzi i suoi templi e i suoi archi, e modelli le sue sculture e apra nuove vie per alpi e per lagune e inarchi nuovi ponti non solo ormai sui fiumi, ma sui laghi, ma sui mari e non solo sopra lo specchio delle acque, ma fin per disotto ai tetri loro gorghi”.
Qualche anno fa mi è capitato di partecipare ad un incontro tra alcuni studiosi aziendali ed un gruppo di giovani eredi di una ventina di aziende tra le più famose del made in Italy. I giovani erano tutti tra i venti e i trenta anni e già impegnati nell’azienda di famiglia.
Prima dell’incontro era stato distribuito ai giovani partecipanti un questionario, che conteneva, tra l’altro, la domanda: quale sentite come vostro dovere principale verso l’azienda di famiglia? La grandissima maggioranza dei giovani rispose più o meno nei seguenti termini: “il nostro principale dovere è quello di conservare il grande dono che ci lasciano i nostri padri”.
Ricordo che il gruppetto di docenti rimase molto male di fronte ad una risposta così remissiva, priva di ambizione, difensiva. Non ci parve una risposta confortante per il futuro dell’industria italiana.
Ma per fortuna ci sono anche giovani diversi come le storie narrate da Maugeri testimoniano.