Il maresciallo Lenin Mancuso era uno stretto collaboratore del consigliere Cesare Terranova sin dagli inizi degli anni ’60 e si occupava anche della sua tutela
Il 25 settembre 1979, Cesare Terranova e Lenin Mancuso furono uccisi dalla mafia in un attentato.
Il maresciallo Lenin Mancuso era uno stretto collaboratore del consigliere Cesare Terranova sin dagli inizi degli anni ’60 e si occupava anche della sua tutela.
“Quotidiano di Sicilia” ha voluto parlare della sua figura con il figlio Carmine Mancuso, oggi ex Senatore della Repubblica e funzionario di Polizia in quiescenza.
Molto spesso la figura di Lenin Mancuso è indicata come l’autista del consigliere Terranova. In effetti non è proprio così.
«Siamo agli inizi degli anni ’60 quando le vite, e i destini, di Terranova e mio padre s’incrociano. Il loro rapporto si concretizza con l’istruttoria del processo dei “114”. La Squadra Mobile di Palermo aveva realizzato il rapporto su 54 elementi appartenenti alle cosche mafiose, rapporto che porta anche la firma di mio padre, e fu consegnato proprio a Cesare Terranova, allora uno dei pochi magistrati che, in quel momento si occupava di mafia, ma non solo. Tra il 1962 e il 1967, Cesare Terranova istruì quasi 4800 processi.
Durante la fase d’istruzione del processo, Cesare Terranova aveva bisogno di un rapporto costante con gli investigatori. In quel momento fu deciso che mio padre fosse distaccato dalla Squadra Mobile nell’ufficio di Terranova. A quel tempo nessun magistrato, esclusi il Procuratore, il capo dell’Ufficio Istruzione e il primo presidente, aveva né un’auto di servizio tanto meno una autovettura blindata. Ogni magistrato si muoveva principalmente con mezzi personali. Per effettuare questo “distacco”, Lenin Mancuso fu nominato il suo “servizio di tutela”, tant’è che il 25 settembre 1979, giorno del loro assassinio, l’auto su cui si trovavano era quella di terranova e lui stesso era al volante ma, forse perché era un maresciallo, la stampa dette per scontato che fosse l’autista, ma così non era».
Quando entra in Polizia tuo padre?
«Era nato nel 1922, figlio di un antifascista viscerale e socialista libertario, che per avversione al regime decise di chiamarlo Lenin. Arrivato all’età di 18, quando decise di entrare in Polizia, è evidente che il suo nome era ingombrante, tenuto conto che eravamo ancora in pieno periodo fascista. In quel momento fu fatto un “falso” dall’ufficiale di anagrafe, correggendo il suo nome in Leninni. Dopo il corso di formazione a Caserta, all’arrivo dei documenti ufficiali, il suo nome vero non fu più un segreto e l’amministrazione, non potendolo licenziare, decise di trasferirlo a Spalato, in Dalmazia. Al termine della guerra, con lo scoppio del banditismo, lui e molti dei suoi colleghi dalla Dalmazia furono trasferiti in Sicilia per contrastare, appunto, il banditismo. Mio padre rientrò a Palermo durante i bombardamenti dei nuovi alleati sulla città, quando il cielo di Palermo era oscurato dalle cosiddetta “Fortezze volanti”. Nel 1950, dopo la morte del bandito Giuliano, comincia a occuparsi di mafia, analizzando, tra i primi, la struttura e le logiche mafiose andando anche a individuare i boss di allora. Quando fu ucciso Stefano Lupo Leale, boss emergente che aveva una torrefazione di caffè in via Napoli, a Palermo. La moglie, Serafina Battaglia, per paura che dopo il marito le ammazzassero anche il figlio si rivolse a un altro boss, padrino di suo figlio, chiedendogli di far sì che il figlio non sarebbe stato ucciso. In realtà il ragazzo crebbe in un clima di vendetta tant’è che, alla fine, lo uccisero. Serafina Battaglia, una mattina si presentò a casa di mio padre che l’ascoltò e la portò da Cesare Terranova. Fu proprio dalle prime dichiarazioni della Battaglia che nacque il rapporto dei “54” di cui abbiamo parlato poc’anzi che divenne poi quel procedimento giudiziario che si svolse a Catanzaro che, se avesse avuto esiti positivi, avrebbe cambiato completamente le carte del contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso perché mandò alla sbarra 114 boss e sodali mafiosi. Quando Terranova venne eletto deputato, mio padre fu nominato consulente della Commissione Antimafia».
Lei, invece, quando entra in Polizia? Hai mai avuto l’occasione di lavorare fianco a fianco con suo padre?
«Io sono entrato in Polizia nel 1967. Quando fui trasferito a Palermo, era la metà degli anni ’70, mio padre era sempre al fianco di Terranova. È chiaro che, al termine del lavoro, gli “rapportavo” tutto quello che era successo e lui mi dava consigli, suggerimenti, vista la sua grande conoscenza sia del territorio sia del fenomeno mafioso. Non abbiamo mai, tecnicamente parlando, lavorato assieme ma ho avuto la fortuna di avere in casa, oltre che un padre, anche la memoria storica delle indagini sulla mafia anche per la sua conoscenza di tutti i processi che aveva istruito Terranova».
A suo giudizio, quello di Lenin Mancuso non è stato un omicidio casuale, ossia legato al fatto che si trovasse semplicemente li.
«No, Mancuso era, come Terranova, una polveriera. Il suo è stato voluto e cercato anche perché avrebbero potuto colpire Terranova in molte altre occasioni. In questo caso è possibile definirli due omicidi preventivi, legati non solo a quello che avevano intrapreso e portato a segno contro la mafia ma per quello che sapevano e avevano capito e, quindi, che potevano fare. Non dimentichiamo, inoltre, che durante la perquisizione del covo di Pecori-Giraldi, individuazione che conclama l’alleanza tra la famiglia Marchese e i corleonesi, fu ritrovato un appunto su cui era indicata la targa dell’auto di Terranova, quella 131 in cui entrambi furono uccisi. Altro elemento da non sottovalutare era la presenza a Palermo, proprio in quel periodo, di Michele Sindona, sulle cui tracce c’era Giorgio Boris Giuliano, che verrà ucciso qualche mese prima, il 21 luglio di quello stesso anno».
Dove era quel 25 settembre?
«Il giorno prima avevo fatto il turno pomeridiano e quindi quella mattina ero a casa. Ricevetti una telefonata dal collega che era in servizio cui avrei dovuto dare il cambio nel pomeriggio che mi comunicava che mio padre aveva avuto un incidente in via Libertà. Dopo aver avvisato mia madre, ho richiamato il collega per avere più dettagli. Solo allora mi disse che c’era stata una sparatoria e che mio padre era stato portato all’ospedale di Villa Sofia. Fu mandata un’auto di servizio per portare sia me sia mia madre in ospedale. Durante il tragitto, dalla radio della Volante, arrivò l’annuncio che mio padre era morto. Arrivati all’ospedale corsi al pronto soccorso e lo trovai lì, steso sul lettino, nudo, esangue. Non era ancora morto e il suo corpo era crivellato dai colpi di fucile e di pistola. Mi mandarono fuori subito. Avevo appena raggiunto mia madre quando quattro infermieri portarono fuori dal pronto soccorso un corpo contenuto in un lenzuolo. Il braccio di mio padre penzolava fuori dal lenzuolo. Mia madre riconobbe l’orologio e anch’io. In quel momento mi crollò il mondo addosso e fui pervaso da un sentimento misto tra rabbia, disperazione, dolore e incredibilità».
Il giorno del funerale?
«Furono celebrati in Cattedrale. C’era un popolo di gente comune. Nessuna delle autorità si degnò di passare da mia madre per dimostrare conforto. Lo stesso Questore di allora, il dottor Epifanio, ebbe un atteggiamento di superiorità nei nostri confronti. Mia madre scrisse una lettera al Presidente Pertini, per esprimergli il suo rammarico. Il suo intervento fu immediato tanto che fu insignito della medaglia d’oro, che fu appuntata, con una cerimonia solenne, al petto della vedova Caterina Mancuso, mia madre, proprio dal presidente Sandro Pertini».
Roberto Greco