Per capire come ad Antonello Montante – al secolo Calogero Antonio, puntualizzazione doverosa in una storia zuppa di ambivalenze – non possa essere imputata la costituzione di un’associazione a delinquere bisogna essere fini esperti di diritto, ma anche un po’ entomologi.
Nelle motivazioni della sentenza con cui la Cassazione ha annullato, lo scorso autunno, la condanna per l’ex paladino dell’antimafia – e gli altri nomi eccellenti, fra i quali esponenti dei servizi segreti, militari di primissimo piano, ex poliziotti e imprenditori – si fa riferimento all’immagine di un’ape regina.
Montante, che è in attesa di conoscere il nuovo computo della pena da scontare per i reati di corruzione e accesso abusivo a sistema informatico, sarebbe stato “punto di riferimento per tutti”.
La Cassazione
Per la Suprema corte l’ex capo di Sicindustria – capace di diventare responsabile nazionale per la legalità di Confindustria, condizionare nel profondo la vita di un governo regionale (Crocetta), spartire favori e raccomandazioni, accumulare informazioni sulle persone sgradite e fare breccia anche nel mondo associativo che credeva nel suo impegno contro Cosa Nostra – “tutto muoveva”. Ma con una specifica non da poco, visto che ha rovesciato l’impianto accusatorio che aveva portato alla condanna a 14 anni in primo grado e a otto in appello: tutto è avvenuto “al di fuori di una struttura organizzativa”. Insomma, un’ape regina ma senza un vero e proprio alveare.
Una struttura monca
Per la Cassazione, Montante sarebbe stato al centro di un ecosistema di relazioni che in più di un caso sono sconfinati nella commissione di reati. I protagonisti, tuttavia, non avrebbero mai percepito quello che in diritto si definisce “affectio societatis”, la volontà consapevole e reciproca di collaborare stabilmente per un fine comune.
“Una struttura monca, senza legame, con partecipi ignari di tutto, con reati fine isolati e tra loro scissi, senza la condivisione di un programma unitario; una serie di condotte svincolate e caratterizzate da finalità egoistiche individuali”, si legge nelle motivazioni depositate nei giorni scorsi.
Secondo i giudici ermellini, la difficoltà nell’individuare l’esistenza dell’associazione a delinquere era già emersa nel giudizio di secondo grado, in cui la Corte d’appello aveva comunque emesso sentenza di condanna specificando che il gruppo aveva operato come due articolazioni distinte. “Come rami collegati e non separati”, scrissero i giudici, specificando che le attività portate avanti andavano dal reperimento di informazioni riservate al condizionamento delle attività ispettive a seconda di quanto i destinatari fossero apprezzati o meno da Montante, dalle sollecitazioni funzionali a garantire progressioni di carriera al procacciamento di posti di lavoro.
Le ombre del passato
Per i magistrati della procura di Caltanissetta, che nella primavera del 2018 ottennero l’arresto di Montante, l’associazione a delinquere era nata a fine anni Duemila, tra il 2008 e il 2009.
All’origine di tutto ci sarebbe stata l’esigenza di Montante di tenere al sicuro quello che l’ex paladino dell’antimafia avrebbe voluto rimanesse per sempre un segreto: i rapporti con il boss di Serradifalco (Caltanissetta) Vincenzo Arnone.
Un dato che nel 2014 porterà invece la Dda a indagare Montante per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, ipotizzando una possibile creazione di fondi occulti destinati a incrementare le attività illecite di Cosa Nostra.
È nell’ambito di quell’indagine, e con il successivo contributo di persone un tempo fedeli a Montante, che i magistrati si troveranno ad approfondire i rapporti con le forze dell’ordine e lo scambio di favori e protezioni poi finito al centro del processo che per Montante e parte degli altri imputati si è celebrato con rito abbreviato.
In primo e secondo grado, i giudici avevano fatto emergere quella che è stata definita una controindagine “volta a condizionare le persone informate sui fatti e, più in generale, gli sviluppi investigativi che lo riguardavano”.
La storia che ne è venuta fuori sembra un omaggio a Pirandello: “Montante sarebbe riuscito ad assumere una posizione di potere in Confindustria, in ragione del suo prospettato impegno antimafia, dissimulando la sua pregressa vicinanza alle cosche locali e accusando, invece, di tali connivenze coloro che avevano già dei ruoli nelle organizzazioni imprenditoriali o nelle società partecipate della Regione Siciliana”, viene ricostruito nella sentenza della Cassazione. Un quadro che, oggi, per molti prescinde dalla rilevanza penale e si fa dato storico.
Il feromone del clientelismo
Nell’organizzazione complessa che struttura ogni alveare che si rispetti, l’ape regina impone la propria leadership grazie alla produzione di feromoni, sostanze chimiche che condizionano il comportamento delle altre api.
La storia di Montante, almeno dal punto di vista giudiziario, è quella di un’ape regina sui generis, a cui viene riconosciuta un’importanza fondamentale anche da chi, per ruolo sociale, si potrebbe pensare non esser propenso alle lusinghe. Così, però, non è stato. A dirlo, in via definitiva per coloro che hanno scelto l’abbreviato, è stata la stessa Cassazione, riconoscendo diversi casi di avvenuta corruzione. Resta dunque da chiedersi quali feromoni abbia potuto attivare Montante.
La risposta, leggendo le motivazioni della Suprema Corte, sembrerebbe da rintracciare non tanto nel camaleontico protagonista, ma nella cultura di cui l’intera vicenda è imbevuta.
“I fatti per cui si procede si collocano in un generale contesto clientelare, originato dal livello elevatissimo dalle relazioni, anche istituzionali, che Montante nel corso del tempo aveva costruito – si legge – Relazioni aventi natura lecita e, in qualche modo, legate al ruolo, alla fama, al credito reputazionale acquisito da Montante; che avevano creato un consenso diffuso, generalizzato, che conduceva le persone ad avvicinarsi, o a tentare di farlo, a chi in quel momento rifulgeva di luce evidente, per la fama acquisita, per il suo potere di influenza, anche dell’opinione pubblica, per il conseguente potere di condizionamento, per la tendenza delle singole persone ad assecondare l’imputato al fine di trarne vantaggi o utilità”.
Come dire che, a prescindere dal fatto che in questo caso fossero coinvolti vertici delle istituzioni, alla fine la materia è quella che può essere rintracciata anche nelle segreterie politiche della periferia del Paese. Una sorta di così fan tutti.
Le pen drive
Per quanto non si possa più affermare che Montante fosse a capo di un’associazione a delinquere, la lunga parabola dell’ex paladino dell’antimafia resta ricca di episodi che difficilmente possono capitare a una persona comune. Tra queste c’è quella che ha al centro una pen drive che, nel 2014, Montante avrebbe ricevuto nel corso di una cena da Giuseppe D’Agata, colonnello dei carabinieri nel cui curriculum figurano esperienze nei servizi segreti e alla Direzione investigativa antimafia.
Attorno a quell’episodio ruota uno dei misteri più inquietanti di questa storia: per quanto non sia mai stato dimostrato, diversi elementi hanno portato a sospettare che all’interno della chiavetta potesse esserci una copia della registrazione della famigerata telefonata tra l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, intercettata nell’ambito delle indagini sulla trattativa Stato-mafia e la cui distruzione ordinata dalla procura potrebbe non avere garantito la sparizione definitiva del file.
Di altre pen drive si parlò a caldo dell’arresto. Il blitz della polizia, compiuto a Milano il 14 maggio 2018, fu rallentato da Montante. “Rimase chiuso per due ore senza aprire, nel frattempo danneggiando numerose penne usb e floppy disk, senza mai spiegare il senso di quel gesto”, viene ricordato nell’ultima sentenza.
Cosa ci fosse custodito all’interno dei supporti informatici non è mai stato chiarito. Ed è impossibile dire se abbia mai contenuto una traccia di quel programma criminoso che avrebbe contribuito a puntellare la tesi dell’esistenza di un’associazione a delinquere.

