Home » Di mostri, navigatori, sirene e cosi fatate: a occhi chiusi negli abissi oscuri di Sicilia

Di mostri, navigatori, sirene e cosi fatate: a occhi chiusi negli abissi oscuri di Sicilia

Di mostri, navigatori, sirene e cosi fatate: a occhi chiusi negli abissi oscuri di Sicilia
Vignetta di Maryelena Grasso

Un viaggio tra Scilla, Colapesce e le altre creature marine, da Borges a Camilleri, lì nelle profondità più remote del mare isolano

Il nostro viaggio nelle creature marine ha inizio col fantastico delirio del videoclip “Little Talks” (2012) degli Of Monsters and Men, dove gli avventurieri e la misteriosa creatura aliena si scontrano, tra gli altri, con un terrificante mostro marino che, pur se nei gelidi mari dell’Islanda, ricorda non poco Scilla, creatura delle acque siciliane. Ne riprendiamo la descrizione che fa Borges nel Manuale di zoologia fantastica: una ninfa che, a causa della gelosia di Circe per Glauco, che se n’era innamorato, è trasformata in una creatura fatta di cani latranti, dodici piedi e sei teste che, “terrificata da questa metamorfosi, si gettò nello stretto che separa l’Italia dalla Sicilia; […] ancor oggi, durante le tempeste, i naviganti ne odono il ruggito” (Einaudi, 1998; ora Adelphi, 2006).

Ed è nelle acque profonde dello Stretto che di certo troveremo Colapesce, ispiratore dell’oralità popolare. Ne narra Pitrè, in ben 18 varianti, ed è reso famoso dalle Fiabe Italiane di Italo Calvino (Einaudi, 1956): Colapesce, ibrido umano e pesce, riceve dal re di Messina il compito di scoprire quanto è profonda l’estremità dell’Isola. Da qui le varianti si dividono: Pitrè e Calvino scrivono che, per recuperare la corona lasciata cadere in acqua dal re, il ragazzo non faccia più ritorno; La Capria, in una rielaborazione recentemente illustrata da Vincenzo Del Vecchio (Gallucci, 2021) lo vuole “felice, lontano dalla terra, dagli uomini e dai Re”; altri ancora lo vogliono a sostenere una delle tre colonne su cui poggia la Sicilia.

Torniamo a Borges, ancora nel suo compendio di creature fantastiche, e alla variegata figura della sirena. Borges cita autori che dall’antichità fino al XVI secolo hanno descritto questa creatura, senza dubbio femminile, incerta per la sua natura, un po’ uccello e per lo più pesce ma che, per tutti, affascina inevitabilmente con la sua voce, facendo impazzire chi la ascolta. Immune al suo fascino, che unisce eros e thanatos, è Gnazio Manisco, contadino con un pezzo di terra in contrada Ninfa, vicino Vigata, di cui ha sentito parlare Andrea Camilleri quando era bambino. La storia prosastica di Gnazio presto si imbastisce di mito quando prende come moglie Maruzza Musumeci, titolo e totale protagonista del romanzo (Sellerio, 2007) del nostro ‘Tiresia’ di Porto Empedocle, che la descrive così: “diciva che lei non teneva la natura, che era nasciuta diversa, che aviva sì le minne, ma che non teneva lo sticchio […] si cridiva d’essiri un pisci […] ‘na sirena”, riscrivendo il mito della donna-pesce odissiaca all’interno di una cornice a tre lati.

Ma come dal cosmo queste figure leggendarie precipitano in mare? Ce lo racconta bene lo studio condotto da Emanuele Coco in Dal cosmo al mare (Olschki, 2018) in cui, seguendo i viaggiatori circumnavigare il globo, il mito della sirena presto perde il suo mistero e la figura si naturalizza nel lamantino femmina, che con i suoi grossi seni per allattare i cuccioli veniva scambiato per qualcosa di più etereo, mistico, sensuale. E il contatto tra mito e realtà ci porta alla rilettura di Annamaria Piccione nel volume Spirdi, spirdati, sirene e altri esseri fantastici della Sicilia (Telos 2020), dove una Sirena racconta come, dopo essere stata per secoli spettatrice passiva delle vicende degli uomini, ha ora deciso di mettere in salvo chi, disperato, affronta il mare su piccole barche, in cerca di una terra migliore. È il mostro che riscatta la sua immagine prodigiosa – del ‘monstrum’ latino – contro la crudeltà umana.

Viene dunque da chiedersi, in conclusione, se davvero abbiamo bisogno di capire fino in fondo chi sono queste sirene, o se dovremmo solo lasciarci trasportare dalla loro voce per tornare ad ascoltare storie antiche ma pur sempre rinnovate nel nostro spirito come, da un suo ricordo d’infanzia, ci rammenta Camilleri: “Minicu mi raccomandava spesso di chiudere gli occhi “pi vidiri le cosi fatate”, quelle che normalmente, con gli occhi aperti, non è possibile vedere”.