Conosco Nello Musumeci dagli inizi degli anni Novanta, quando, sconosciuto al pubblico, si candidò a presidente della Provincia di Catania.
Ritualmente venne da me per il Forum ed ebbi un’ottima impressione, di una persona capace di svolgere il ruolo al quale aspirava. Fu eletto non una, ma ben due volte e per dieci anni operò molto bene.
Successivamente, candidandosi alla Presidenza della Regione, ottenne i suffragi, anche per la defaillance di Gianfranco Miccichè di cui forse qualcuno si ricorda. Ma la Regione non è la Provincia, Palermo non è Catania. Così si trovò nelle medesime condizioni in cui un’altra brava persona, capace, come Renato Schifani, si è trovata non appena eletto, tre anni fa, alla Presidenza della Regione.
Qual era lo scenario che Musumeci prima e Schifani ora si sono trovati davanti? Una Pubblica amministrazione allo sfascio, con oltre undicimila dipendenti che non hanno un’organizzazione sul modello della Bocconi a Milano, di Harvard negli Usa e di Cambridge e Oxford in Inghilterra.
La conseguenza di questo sfascio della Regione è che non funziona quasi niente: la sanità è da terzo mondo; quaranta miliardi di fondi (tra Pnrr, Po europei, Fsc e altri) non vengono spesi; le infrastrutture provinciali di competenza della Regione cadono in rovina; le coste sono in condizioni disastrose; i parchi non funzionano perché hanno solo compiti amministrativi e non attrattivi; il turismo non è organizzato perché non vi sono iniziative a livello nazionale e internazionale, anche per attrarre convegni, soprattutto nei sei mesi invernali; la lentezza esasperante nel disbrigo delle procedure amministrative si riverbera sull’economia; gli appalti non si concludono mai nei tempi previsti. L’elenco è lungo e non lo continuiamo per non annoiarvi.
In questo marasma fionda la frase che ha lanciato il ministro Musumeci: “La Regione è fondata sulle clientele o sul clientelismo e consociativismo”. Ha perfettamente ragione e possiamo confermarlo, perché nella legislatura Musumeci abbiamo più volte lanciato questo grido di dolore, suffragato da inchieste basate su dati di fatto.
Comprendiamo l’anatema lanciato da Musumeci nei confronti di Schifani, ma non comprendiamo perché, quando noi abbiamo scritto le stesse cose nei confronti della Presidenza Musumeci, quest’ultimo ci ha fatto avere messaggi di fuoco, dicendo che lo stavamo massacrando.
Musumeci dice le stesse cose che scrivevamo noi. Dunque, delle due l’una: o entrambi abbiamo detto la verità, quindi nessuno si deve adombrare, oppure entrambi abbiamo mentito e di conseguenza attendiamo la risposta di Schifani, forse simile a quella che Musumeci ci ha dato.
Resta il fatto incontrovertibile che, dalla riforma elettorale in avanti, i presidenti che si sono succeduti – Cuffaro, Lombardo, Crocetta, Musumeci e ora Schifani – non sono riusciti a far diminuire l’enorme gap economico e sociale che c’è fra la Sicilia e, poniamo, il Veneto o la Toscana, per non citare la Lombardia, che è lontana mille miglia.
L’illusione che tale gap sia diminuito, portata dalle percentuali, come abbiamo scritto più volte, è destituita di fondamento.
Il gap fra la Sicilia e il Veneto, in miliardi di euro, è testimoniato dalle seguenti cifre: la Sicilia ha un Pil intorno a 110 miliardi di euro, mentre il Veneto, che ha quasi la stessa popolazione, ha un Pil di 197 miliardi; in Sicilia l’aumento del Pil è stato di 7 miliardi, mentre in Veneto è stato di 13 miliardi.
Chi può negare che il divario sia aumentato? Il cieco o l’incompetente.
Nella nostra Regione impera la cultura del favore e la cultura degli affari, da cui derivano le clientele denunciate apertis verbis da Musumeci. Sol che la sua fonte ha il difetto di essere anche quella che non ha impedito, nel suo periodo istituzionale di presidente della Regione, che persistessero clientele e affarismi. Esse infatti non sono nate con la Giunta Schifani, ma provengono da decenni, ivi compreso il periodo in cui l’attuale ministro è stato presidente della Regione.
Ora, caro Musumeci, lei continua a dirci che la stiamo massacrando? Ci auguriamo di no e che riconosca la nostra linea adamantina, che dura da quasi cinquant’anni.

