Dipende da noi cosa ne facciamo della nostra nascita
Che la nostra nascita, il come, il quando, il dove, non dipenda da noi, mi pare un fatto di accecante evidenza. Dipende invece da noi cosa ne facciamo di questa nascita, come scolpiamo nelle nostre traiettorie di vita l’essere nati senza deciderlo, come siamo capaci di rinascere ogni giorno, di fare della nostra esistenza una pratica possibilmente feconda di innumerevoli nascite. Con le parole di Maria Zambrano: “Sembra che dover rinascere sia condizione della vita umana; dover morire e risuscitare senza uscire da questo mondo”.
E ancora: “L’uomo ha una nascita incompleta e per questo non si è mai adattato a vivere naturalmente e ha avuto bisogno di qualcosa di più: religione, filosofia, arte o scienza. Non è nato né cresciuto interamente per questo mondo perché non s’incastra perfettamente in esso, e sembra che niente sia predisposto per lui; la sua nascita è incompleta e così il mondo che lo aspetta. Deve dunque finire di nascere interamente e crearsi il proprio mondo, il proprio posto, il proprio luogo, deve incessantemente partorire se stesso e la realtà che lo ospita”.
In questo tragitto esistenziale, mai definitivo, compiuto, sempre aperto all’eccedenza, il concretissimo spirito che specifica l’umano si fa comunità, oltre le logiche programmatorie e calcolanti, oltre il destino inteso come uno stare incontrovertibile refrattario alla nostra risposta, al nostro sguardo vocazionale: Sempre con la Zambrano: “La coscienza si estende, e non viviamo più sotto il peso del destino, sotto il suo manto, sentendo l’ignoto in agguato. Viviamo in stato di allerta, sentendoci parte di tutto ciò che accade, anche solo come minuscoli attori nella trama della storia così come nella trama della vita di tutti gli uomini. Non è il destino, ma semplicemente la comunità, la convivenza, quello in cui ci sentiamo avvolti: sappiamo di convivere con tutti gli uomini che vivono qui, e anche con tutti gli uomini che qui vissero un tempo”.
In questo processo di continua rinascita, di generazione inesausta, di un nascere ancora, ogni volta, facciamo esperienza dell’alterità toccando ed essendo toccati, nel contatto reale con il mondo, corpo tra i corpi, estensione tra estensioni, fascio di possibilità tra fasci di possibilità. Qui, e solo qui, si inserisce il tema dello sguardo con cui abitiamo la nostra nascita originaria. Lo sguardo con cui illuminiamo la scena umana può creare o distruggere, accogliere o respingere, custodire o ghermire, comunque sempre a partire da come plasmiamo la nostra originaria deposizione o gettattezza nel mondo.
A questo livello del discorso, ogni sguardo umano, in cui si radicano le sue innumerevoli nascite, non è mai fatto solo per il presente, per l’ora, l’adesso, ma per la storia, la narrazione, la durata, sia pure limitata a causa della nostra finitezza.
Non è possibile all’umano dare forma e corpo alle sue continue nascite senza una storia, una memoria, un percorso. Con “Le notti bianche” di Dostoevskij: “E come avete vissuto se non avete una storia?”.