I classici sono tali perché si ergono contro la boria di ogni presente di essere assoluto, dogmatico, vincolante. Nel caso specifico, Rainer Maria Rilke, “Lettere a un giovane poeta”, ci ammonisce contro il mito della facilità, della semplificazione dozzinale, della generalizzazione consolatoria o vigliacca, stimolandoci a osare, a perseguire il difficile.
Un messaggio quanto mai prezioso per questo nostro tempo in cui l’immediata fruibilità delle emozioni si impone sulla loro narrazione, sul loro farsi sentimenti, il politicamente corretto, fintamente inclusivista, sul pensiero alternativo, inaudito, che produce scarti, sbreghi, faglie rispetto al sistema, alle pratiche monolitiche.
La difficoltà riferita all’amore, a ogni prassi del bene, risulta ancora più alta, poiché le relazioni umane non sono mai qualcosa di lineare, programmabile, perimetrabile. Non a caso Ernst Cassirer parla di “aggrovigliata trama della umana esperienza”, poiché, sottolinea giustamente, il nostro universo non è semplicemente fisico, ma simbolico.
Ma gustiamoci direttamente Rilke: “La gente, con l’ausilio delle convenzioni, ha risolto tutto secondo la facilità e la più facile delle facilità; ma è chiaro che noi dobbiamo attenerci al difficile; tutto ciò che vive vi si attiene, tutto in natura cresce e si batte a modo suo ed è per sua costituzione cosa a sé, e cerca di esserlo a qualunque prezzo e contro ogni resistenza. Sappiamo poco, ma che dobbiamo attenerci al difficile è una certezza che non ci deve abbandonare; è bene essere soli, poiché la solitudine è difficile; che una cosa sia difficile deve essere per noi un motivo in più per farla. Anche amare è bene: poiché l’amore è difficile. Volersi bene, da uomo a uomo: è forse questo il nostro compito più arduo, l’estremo, l’ultima prova e verifica, il lavoro che ogni altro lavoro non fa che preparare. Per questo i giovani, che sono principianti in tutto, ancora non sanno l’amore; lo devono imparare. Con tutto l’essere, con tutte le energie, raccolte intorno al loro cuore solitario, ansioso, dal battito anelante, devono imparare ad amare. Ma il tempo dell’apprendistato è sempre un tempo lungo, chiuso al mondo, e così amare è a lungo, e fin nel pieno della vita, solitudine, intenso e approfondito isolamento per colui che ama”.
E ancora: “Amare non significa fin dall’inizio essere tutt’uno, donarsi e unirsi a un altro (poiché cosa sarebbe mai unire l’indistinto, il non finito, ancora senza ordine?); è una sublime occasione per il singolo di maturare, di diventare in sé qualcosa, di diventare mondo per sé per amore di un altro, è una grande, immodesta pretesa a lui rivolta, qualcosa che lo presceglie e lo chiama a vasti uffici. Solo in questo senso, come compito di lavorare a sé (“di stare all’erta e martellare notte e dì”), i giovani potrebbero usare l’amore che viene loro dato. Essere tutt’uno e donarsi e ogni sorta di comunione non è per loro (che ancora a lungo, a lungo devono risparmiare e radunare), è il compimento, è forse quello per cui oggi intere vite umane ancora non sono sufficienti”.

