Ocse, rotto l’equilibrio, pensione a 71 anni - QdS

Ocse, rotto l’equilibrio, pensione a 71 anni

Carlo Alberto Tregua

Ocse, rotto l’equilibrio, pensione a 71 anni

mercoledì 15 Dicembre 2021

I contributi non bastano più

Il rapporto dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha fatto presente che continuando con questa dissennata politica pensionistica e assistenzialistica, le future generazioni saranno costrette ad andare in pensione a un’età non inferiore a 71 anni.

Questo è dovuto non solo all’attesa di vita – che in atto è di 67 anni – ma soprattutto in quanto l’equilibrio fra entrate e uscite, com’è ora, non vi sarà più, per la semplice ragione che i contributi versati dai lavoratori attivi ogni anno agli enti previdenziali, fra cui in primis l’Inps (Istituto nazionale della previdenza sociale), non saranno sufficienti per pagare gli assegni pensionistici.

Dobbiamo ricordare che, in base al negativo comportamento di molti governi quadripartiti e pentapartiti di stampo clientelare, vi sono cittadine e cittadini italiani che percepiscono la pensione da quaranta o cinquant’anni. Ciò perché vi sono state leggi che hanno consentito a giovani insegnanti (donne) di andare in pensione con appena undici anni di servizio. Una vera stupidaggine.


A ciò si aggiunga che, per fortuna, l’età media è avanzata parecchio e con essa l’erogazione delle pensioni.
Ma non basta, perché altre leggi clientelari e assistenzialistiche hanno esteso il diritto all’assegno pensionistico a parenti, disabili, a figli e altri, così la filiera è diventata interminabile.

In atto, l’erogazione delle pensioni è circa il diciassette per cento del Pil, intorno a 280 miliardi che vengono erogati a cittadini e cittadine che hanno maturato un pieno diritto, ma anche ad altri che hanno maturato un semi-diritto.
Di che si tratta? Del fatto che l’assegno pensionistico non è, in molti casi, proporzionato ai contributi versati in quanto il calcolo fino al primo gennaio 1996 non avveniva in base a essi, bensì all’ultimo stipendio percepito.
Inoltre, vi sono privilegi di ogni tipo. Per esempio quello dei parlamentari, che maturano il diritto all’assegno pensionistico, chiamato vitalizio, non appena la legislatura supera quattro anni, sei mesi e un giorno. Ma sembra che tale termine voglia essere accorciato per aumentare il privilegio.

C’è di più. Vi sono cittadini e cittadine italiani che percepiscono due, tre, quattro o perfino cinque pensioni, come se avessero vissuto due, tre, quattro o cinque vite con altrettanti lavori. Per esempio, i magistrati in aspettativa, diventati parlamentari, che dopo trent’anni, usciti dal Parlamento e ritornati in servizio, hanno maturato la pensione come se avessero lavorato contemporaneamente sia in Magistratura che al Parlamento. Lo stesso dicasi dei professori universitari.

Vi sono altri privilegiati, per esempio c’è chi è stato eletto deputato o consigliere regionale, poi eurodeputato e infine parlamentare nazionale. Ebbene, codesto o codesta fortunato percepisce tre pensioni, oltre a quella, eventualmente, di un’attività da cui si è messo/a in aspettativa, ma per la quale il conteggio è continuato ad andare vanti.
Il quadro dei privilegi in materia pensionistica potrebbe continuare, ma non sembra che l’attuale Governo voglia mettere un punto.


Non si capisce perché non si debba fare una riforma strutturale secondo la quale ogni cittadino o cittadina debba avere una sola pensione perché ha un solo lavoro: o fa questo o fa quell’altro o l’altro ancora. Tutti i contributi di qualunque lavoro dovrebbero confluire in un unico percorso contributivo e dar luogo a un’unica pensione, sempre proporzionata ai contributi versati.
Non si può tollerare che vi siano persone che percepiscono assegni di trenta o quarantamila euro al mese, ripetiamo, al mese.

L’Italia dei privilegi è il peggio che possa capitare a una Comunità perché essi sono uno sfregio ai milioni di cittadini e cittadine senza lavoro o con remunerazioni basse, a prescindere dalla regione in cui abitano.

È vero che bisogna fare aumentare il Pil per rendere meno gravoso il debito pubblico, ma è anche vero che bisogna intervenire per distribuire uguaglianza fra i cittadini, senza la quale una Comunità non ha la forza di convivere secondo i principi di equità e giustizia.

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