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Omicidio Vittorio Bachelet, perché fu ucciso dalle BR? L’intervista a Rosy Bindi

Omicidio Vittorio Bachelet, perché fu ucciso dalle BR? L’intervista a Rosy Bindi

L’Onorevole Rosy Bindi, all’epoca dei fatti assistente universitaria di Bachelet, racconta: “Ucciso non solo dalle Br, ma per la sua forza riformatrice e di modernizzazione della Costituzione”

È il 12 febbraio 1980 e sono da poco passate le 11 e 30 di una splendida giornata primaverile. Vittorio Bachelet, 54 anni, professore di “Diritto amministrativo” e di “Scienza dell’amministrazione” e vice presidente del Consiglio Superiore della magistratura, ha appena concluso la sua lezione all’Università della Sapienza di Roma. Esce dall’aula numero 11, quella dedicata ad Aldo Moro, e si avvia chiacchierando con la sua assistente e due studenti verso le scale che portano all’ingresso della facoltà. Vittorio Bachelet imbocca le scale e si ferma nell’androne. Anna Laura Braghetti, organica alle Br, raggiunge il professore che le volge le spalle, lo afferra e lo gira poi spara. Quattro colpi all’addome da non più di trenta centimetri colpiscono Vittorio Bachelet che si piega su se stesso, barcolla e cerca istintivamente rifugio in un angolo a ridosso della vetrata. Interviene Bruno Seghetti, altro brigatista, che si precipita verso Bachelet che sta crollando a terra e preme il grilletto. Il professore si affloscia su un fianco, perde gli occhiali. L’assassino si china su di lui e gli spara il colpo di grazia alla nuca. Otto colpi calibro 32, di cui uno al cuore e uno alla nuca.

Sandro Pertini, in quel momento capo della Stato e presidente del CSM, ebbe a dire, a poche ore dall’assassinio, che con quell’omicidio la lotta armata in Italia aveva toccato il suo punto più alto di aggressione allo Stato: “Questo di oggi è il più grave delitto che sia stato consumato in Italia perché il delitto Moro aveva un carattere politico, mentre quello di oggi è diretto contro le istituzioni; perché si è voluto colpire il vertice della magistratura, il vertice del pilastro fondamentale della democrazia”.

L’assistente con cui stava parlando quel giorno il professor Vittorio Bachelet, era Rosy Bindi.

Vorrei cominciare dall’inizio, Onorevole Bindi. Quando incontrò per la prima volta il professor Bachelet e che impressione le fece?

“Il mio primo incontro con il professor Bachelet è avvenuto all’università. In quel momento lui era vice preside della facoltà di “Scienze Politiche” alla “Luiss”, che io stavo frequentando. Sapevo che era il presidente nazionale dell’associazione cui appartenevo e per la quale ero responsabile dei “giovani”, l’Azione Cattolica.

Come studenti avevamo costituito un comitato per la revisione dei piani di studio e lo incontrai proprio in occasione di un incontro organizzato per la presentazione delle nostre richieste e proposte. Ebbi, da subito, l’impressione di una persona con una grandissima capacità di ascolto e di rispetto dell’interlocutore. Per noi studenti fu un incontro assolutamente soddisfacente sia per il merito delle questioni trattate, sia perché l’interlocuzione fu molto fruttuosa anche dal punto di vista dei risultati ma soprattutto per l’accoglienza, per questa sua disponibilità e capacità di relazionarsi con noi. Ci sentimmo considerati, presi sul serio. Ebbi poi modo di incontrarlo in occasione di un incontro che lo portò in Toscana, a Firenze, e avemmo la possibilità di presentarci anche come militanti della stessa organizzazione. In seguito seguii il suo corso di “Scienze dell’amministrazione”, preparai con lui la mia tesi e poi iniziò la collaborazione universitaria”.

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