L’agguato di stampo mafioso avvenne all’esterno dell’Acciaieria Megara il 31 ottobre 1990. A perdere la vita, il dirigente e il manager dello stabilimento. Le indagini non hanno mai portato a un processo e adesso è arrivata l’ennesima richiesta di archiviazione
Come tanti fili d’Arianna spezzati, utili a compiere un tratto del labirinto senza però mai arrivare all’uscita. Forse è questa l’allegoria che meglio riesce a rappresentare ciò che è stato, negli ultimi tre decenni, l’inchiesta giudiziaria sull’assassinio di Alessandro Rovetta e Francesco Vecchio. I due – rispettivamente manager e dirigente del personale dell’acciaieria Megara – furono uccisi a Catania, nel tardo pomeriggio del 31 ottobre 1990, da un commando armato che entrò in azione con tecniche definite “militari”. L’agguato avvenne nella zona industriale, poco dopo che le vittime avevano lasciato lo stabilimento.
Uno dei gialli più intricati della storia recente di Catania
Inizia così uno dei gialli più intricati che hanno segnato la storia recente di Catania. Un fatto di sangue che, a distanza ormai di 34 anni, continua a non avere responsabili e su cui non si è mai celebrato un processo. E questo perché, nonostante sin dal principio sia apparso evidente un coinvolgimento della criminalità organizzata, a oggi non è ancora chiaro chi nello specifico abbia deciso, e per quale motivo, di eliminare i vertici di una delle aziende più in vista della Sicilia.
“Non appare neppure concepibile esercitare l’azione penale, in relazione a un episodio delittuoso di eccezionale gravità come quello di cui si ragiona, sulla base della piattaforma indiziaria manchevole e incompleta”, hanno scritto, nel 2022, i magistrati titolari dell’indagine. Una tesi che è stata confermata nei mesi scorsi, presentando al tribunale l’ennesima richiesta di archiviazione. La quinta da quando si è iniziato a lavorare su quello che sarebbe diventato a pieno titolo un cold case.
Forse coinvolte entità esterne alla mafia
Prima di addentrarsi tra le pieghe di questo mistero, è giusto fare una premessa: il duplice omicidio Vecchio-Rovetta non è un evento di cui nessuno dichiara di sapere qualcosa. Anzi, nel corso degli anni sono state decine le testimonianze raccolte dagli inquirenti, non pochi gli indagati, molteplici gli spunti investigativi. A mancare sempre, però, è stata la capacità di completare il puzzle: è come se ognuna delle persone che sostengono di essere venute a conoscenza della storia offrisse una prospettiva diversa da cui guardare ai fatti, un’angolazione non conciliabile con le altre. Un fenomeno, questo, che ha portato anche a non escludere la possibilità di un coinvolgimento di entità esterne alla mafia.
Il punto da cui partire non è mai stato messo in discussione: le vittime furono assassinate per il lavoro che facevano e, dunque, per ciò che la Megara – oggi Acciaierie di Sicilia – rappresentava. Lo stabilimento, infatti, a inizio anni Novanta era una delle realtà industriali più affermate dell’intero Meridione nonché destinataria di un finanziamento pubblico da decine di miliardi di lire. Un quadro che, ovviamente, aveva attirato anche gli interessi della mafia.
Omicidio Vecchio-Rovetta, tre le piste
In tal senso, sono state tre le piste che nel corso degli anni sono state esplorate dalla procura. La prima – nata con le dichiarazioni, raccolte per la prima volta già nel ’94, del collaboratore di giustizia Maurizio Avola – ha portato a indagare sulle mire che la famiglia Santapaola-Ercolano, e in particolar modo la frangia Ercolano storicamente legata ai trasporti, potesse avere nell’acciaieria. Secondo Avola, l’acciaieria già dagli anni Ottanta era sottoposta al pizzo. Decine di milioni di lire che ogni anno finivano nelle casse di Cosa nostra etnea, ma che a un tratto potrebbero non essere state più ritenute sufficienti al punto da portare la famiglia mafiosa a puntare ancora più in alto, volendone diventare socia di fatto. Seguendo le prime dichiarazioni di Avola – la cui affidabilità è stata messa in discussione dopo le rivelazioni, smentite dalla procura di Caltanisetta, riguardanti un proprio coinvolgimento nell’omicidio di Paolo Borsellino – il progetto dei Santapaola-Ercolano avrebbe trovato la resistenza di Rovetta, spingendo Cosa nostra a volerne la morte.
Tale tesi, tuttavia, è apparsa vacillare per una serie di ragioni. La prima riguarda i rischi per Cosa nostra connessi alla scelta di compiere un delitto eccellente in un contesto in cui l’arrivo dei nuovi finanziamenti per la Megara avrebbe potuto rappresentare un’occasione di ulteriore arricchimento; la seconda, invece, va cercata nell’interesse che, secondo altri collaboratori, Aldo Ercolano avrebbe mostrato all’indomani dell’omicidio: il boss, infatti, si sarebbe mosso per cercare di capire chi fossero i responsabili dell’agguato. Come a disconoscere la parternità del delitto all’interno della famiglia di Cosa nostra etnea.
Che l’acciaieria Megara facesse gola a molti non è una novità
A dimostrarlo – ed è questa la seconda pista esplorata, ma senza successo, dagli inquirenti – sono stati alcuni pizzini scritti da Bernardo Provenzano, negli anni in cui il boss corleonese, dopo l’arresto di Totò Riina, rappresentava il capo indiscusso di Cosa nostra in Sicilia. Provenzano parlò dell’acciaieria – indicata come “ferriera” – in alcuni messaggi inviati a Giovanni Brusca. Quest’ultimo, sentito dai magistrati, ha confermato le estorsioni imposte allo stabilimento – una ricostruzione che i magnati dell’acciaio Stabiumi e Lonati hanno sempre negato davanti agli inquirenti – aggiungendo un particolare: i soldi, per centinaia di milioni di lire, sarebbero stati presi dalla famiglia mafiosa di Caltanissetta che però avrebbe trattenuto le somme senza girarle ai Santapaola-Ercolano. Brusca fa anche il nome di colui che era stato accusato di avere tenuto per sé il denaro: si tratta di Luigi Ilardo, l’uomo che venne ucciso nel ’96 poco dopo avere formalizzato la volontà di collaborare con la giustizia e dopo che già da tempo aveva fornito il proprio contributo alle indagini sulla latitanza di Provenzano.
Stando alla pista palermitana, dunque, il delitto potrebbe essere nato da dissidi legati alla gestione delle estorsioni a cui era sottoposta l’acciaieria. Tuttavia, anche in questo caso, tutto si è arenato davanti a un’ipotesi poco suffragata da elementi tali da poter portare a precise imputazioni.
La terza pista, invece, riporta l’attenzione sul territorio catanese e, in particolare, all’interno di ciò che accadeva all’interno dello stabilimento. Si tratta del filone d’indagine a cui i familiari di Francesco Vecchio, originario di Acireale, hanno sempre puntato di più. A delinearne i contorni per primo fu, nel ’95, il pentito Giuseppe Ferone, esponente del clan Sciuto-Tigna.
Ferone raccontò di avere ricevuto, pochi giorni dopo il delitto, la visita di due esponenti del gruppo criminale e di avere dedotto potessero essere stati coinvolti nel delitto. Stando alla versione di Ferone, i due – Rosario Russo, oggi deceduto, e Carmelo Privitera, fratello del noto boss Orazio – si erano resi protagonisti di un tentativo di estorsione ai danni di Francesco Vecchio. Davanti alla resistenza di quest’ultimo, avrebbero deciso di ucciderlo. In quest’ottica, l’omicidio di Rovetta non sarebbe stato preventivato, ma soltanto frutto di un caso: il manager della Megara, infatti, non era solito viaggiare in auto con Vecchio.
Ferone dice anche di più. Ai magistrati fa il nome di due fratelli: Carmelo e Francesco Rapisarda. All’epoca erano tra gli imprenditori che operavano nell’indotto dell’acciaieria e sarebbero entrati in contrasto con Vecchio e Rovetta, temendo di potersi vedere estromessi dalle attività che portavano avanti. “Si trattava di una persona che era vicina a Biagio Sciuto, tanto che qualche volta ho incontrato questo Rapisarda proprio a casa di Biagio”, ha messo a verbale Ferone, specificando che i principali dissapori erano sorti con Vecchio. Il racconto richiama ciò che negli anni è stato affermato dai familiari del dirigente della Megara: Vecchio aveva iniziato a essere inviso per la decisione di aumentare i controlli sul personale assunto dalle ditte dell’indotto, sospettando che tra gli operai potessero esserci pregiudicati che usufruivano di specifici permessi lavorativi ma che si limitavano soltanto a simulare la presenza nell’acciaieria.
In questo quadro, l’omicidio di Vecchio e Rovetta sarebbe nato da una convergenza di interessi tra gli imprenditori e gli ambienti della criminalità organizzata. Se Carmelo Rapisarda è già deceduto da qualche anno, Francesco Rapisarda è stato tra le persone indagate fino a pochi mesi fa e nei confronti dei quali la procura di Catania ha presentato richiesta di archiviazione. Rapisarda, che a dicembre compirà 81 anni, negli ultimi anni è stato coinvolto in più di un’inchiesta.
Nel 2016 fu indagato in una vicenda in cui si intrecciavano interessi di mafia e massoneria: sei anni dopo per Rapisarda, ritenuto maestro venerabile di una loggia che ha sede a Catania, è stato condannato in appello per turbativa d’asta. L’anno scorso, invece, l’uomo è stato coinvolto in Calabria in un’inchiesta che lo vede accusato di concorso esterno in associazione mafiosa per rapporti con la ‘ndrina Mancuso nella gestione del villaggio turistico Sayonara, lo stesso in cui a inizio Novanta si sarebbe tenuta una riunione tra esponenti di Cosa nostra e della ‘Ndrangheta per definire il coinvolgimento di quest’ultima nella stagione stragista che avrebbe insanguinato il Centro e il Nord Italia.
Il coinvolgimento dei Cappello
A spostare il focus fuori dall’orbita della famiglia Santapaola-Ercolano e portando le attenzioni sui clan mafiosi che a Catania non appartengono a Cosa nostra è stato a fine 2023 lo stesso Maurizio Avola. Sentito nuovamente dai magistrati, Avola per la prima volta ha parlato di estorsioni e di un coinvolgimento dei Cappello, clan che tuttavia all’epoca dei fatti era contrapposto agli Sciuto-Tigna.
Chi invece ha sostenuto il coinvolgimento di quest’ultima cosca è stato il collaboratore Francesco Squillaci. Ai magistrati Squillaci ha parlato di una confidenza ricevuta in carcere da Mario Buda, esponente degli Sciuto-Tigna attualmente in carcere per mafia, il quale avrebbe rivelato il coinvolgimento del clan nel delitto.
A sperare che Mario Buda potesse in qualche modo contribuire alle indagini, nonostante non sia mai diventato collaboratore di giustizia, è stata anche Maria Luisa Rovetta, la figlia del manager della Megara. La donna, all’epoca dell’assassinio del padre, aveva appena due anni. Qualche anno fa, nell’ambito di un incontro organizzato da Libera all’interno del carcere di Opera, a Milano, si è ritrovata a parlare della propria storia, quando dal pubblico Buda è intervenuto dicendo – secondo quanto raccontato dalla figlia di Rovetta – di sapere del coinvolgimento del proprio clan. Parole che hanno portato i magistrati a interrogare Buda, che però ha fornito una versione diversa: “Ricordo di avere incontrato la figlia di Rovetta Alessandro. In quella occasione si è creato un clima di emozione e di empatia reciproca. Ricordo di aver manifestato pubblicamente il mio dispiacere per la morte del padre della ragazza, chiedendo scusa per il dolore che, come ex appartenente ad un gruppo criminale, avevo contribuito a provocare”, ha detto l’esponente mafioso, negando però di avere riconosciuto un coinvolgimento diretto del proprio clan ma anche di avere mai parlato dell’omicidio con Ferone e Squillaci.
Un fatto accaduto pochissimi giorni dopo l’agguato
La cortina di nebbia che rischia di avvolgere definitivamente questa storia è ulteriormente appesantita da un fatto accaduto pochissimi giorni dopo l’agguato: il 5 novembre 1990 all’Ansa di Torino arrivò una telefonata in cui si rivendicava il duplice delitto. “L’operazione è stata fatta dai nostri operai del carcere di Catania”, fu il messaggio. A firmarlo la Falange Armata, l’entità che ha rivendicato diverse delle stragi di mafia che hanno insanguinato l’Italia negli anni Novanta. Una sigla che è stata usata anche in chiave depistante, ma che tutt’oggi si porta dietro tante ombre.
Parla Salvo Vecchio, uno dei figli del dirigente ucciso nel 1990
“Ci opporremo alla richiesta di archiviazione, lo Stato italiano deve darci risposte sul delitto”
“Presenteremo istanza di opposizione alla richiesta di archiviazione, così come fatto già in passato. È inaccettabile che si decida di chiudere un’indagine su un delitto di mafia. Ci sono due famiglie che pretendono venga fatta chiarezza e giustizia”.
Salvo Vecchio, uno dei due figli del dirigente della Megara ucciso a fine ottobre del 1990 insieme al manager dell’azienda Alessandro Rovetta, non usa la diplomazia per anticipare la contromossa che nel giro di pochi giorni verrà attuata da parte dei propri legali. Per l’uomo si tratta di un film già visto: negli ultimi vent’anni, più volte l’inchiesta giudiziaria della procura di Catania è stata in procinto di essere chiusa.
Un esito che è stato evitato, soltanto per la fermezza con cui i familiari delle vittime hanno convinto il tribunale a chiedere che il lavoro degli inquirenti andasse avanti. Finora, però, non è servito a nulla e il capolinea sembra nuovamente essere su un binario morto.
“Spiace dirlo, ma continuiamo a trovarci davanti ad atti d’indagine che riteniamo lacunosi – dichiara Vecchio al Quotidiano di Sicilia –. Dalla nuova richiesta d’archiviazione presentata dai pm emerge come ancora una volta ci si sia basati soltanto sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che, già in passato, hanno dimostrato di non essere sufficienti a ricostruire ciò che è accaduto, chi ha voluto la morte di mio padre e di Rovetta e per quale motivo”.
Un’idea Salvo Vecchio però ce l’ha e coincide con una delle piste che in questi anni sono state esplorate, seppur senza arrivare mai a un processo. “Sin dal principio abbiamo rimarcato come le parole del pentito Ferone, che riconducono l’omicidio nell’orbita della cosca Sciuto-Tigna e dei rapporti che essa aveva con gli imprenditori titolari di una delle società più attive nell’indotto dell’acciaieria, descrivono lo scenario più verosimile di ciò che è accaduto. Mio padre – continua Vecchio – dopo avere scoperto la leggerezza con cui venivano gestiti gli ingressi del personale operaio nell’azienda, impose controlli più ferrei e ciò inevitabilmente disturbò quei pregiudicati che avevano ottenuto il permesso per lavorare”.
Il riferimento di Vecchio è alla Sicame, impresa di proprietà dei fratelli Carmelo e Francesco Rapisarda. Il primo è deceduto, il secondo, 80enne, negli ultimi anni anni è finito in più di un’indagine con l’accusa di avere avuto rapporti con la criminalità organizzata sia in Sicilia che in Calabria.
Tuttavia, anche nei suoi confronti la procura di Catania ha avanzato richiesta di archiviazione. “Finché non si comprenderà che la verità sul duplice omicidio Vecchio-Rovetta deve essere cercata mettendo in campo sforzi maggiori, a partire da una perizia che faccia luce sulla situazione economica e finanziaria che interessava la Sicame in quel periodo e sui rapporti che la stessa aveva con la Megara – va avanti il figlio di una delle vittime dell’agguato –, non faremo passi in avanti”.
Un epilogo che però non è disponibile ad accettare: “In questi anni abbiamo dovuto leggere da parte della procura di Catania riferimenti alla possibilità per la difesa di condurre indagini autonome, al fine di arrivare a risultati tali da consentire di esercitare l’azione penale e giungere a un processo – rivela Vecchio –. Credo sia inutile sottolineare come da normali cittadini non possiamo usufruire degli strumenti a disposizione della procura, ma più in generale ciò che non può essere accolta è l’idea che si lascino le famiglie a dover cercare le risposte che invece dovrebbero essere fornite dalle istituzioni. Lo Stato – conclude – non può tirarsi indietro dai propri doveri, specialmente quando si parla di delitti di mafia”.
Diverse le teorie avanzate negli anni
La pista Falange armata e le ipotesi di depistaggio
“Nella ipotesi (improbabile) di evoluzione dibattimentale del procedimento il labile quadro probatorio condurrebbe certamente a una assoluzione nel merito degli indagati, conferendo a soggetti nei confronti dei quali sussistono comunque elementi di sospetto una inopportuna patente di innocenza”, hanno scritto i procuratori aggiunti Ignazio Fonzo e Francesco Puleio tra le motivazioni della richiesta di archiviazione dell’inchiesta sul duplice omicidio Vecchio-Rovetta. Per i due magistrati “il tempo trascorso e la mancata individuazione di persone che direttamente possano riferire in ordine alla genesi, alle causali e alle modalità degli omicidi suggeriscono di proseguire negli sforzi esplorativi”.
Tra le piste che senz’altro hanno occupato meno spazio nell’indagine c’è quella che porta alla Falange Armata, strana sigla che comparve improvvisamente a inizio 1990. “Non mancarono le rivendicazioni anonime – si legge nella richiesta di archiviazione, ripercorrendo i giorni successivi all’agguato –. Tra queste, è singolare che una di esse, quella della cosiddetta Falange Armata, coincida con la depistante rivendicazione eversiva che verrà utilizzata dapprima da soggetti non identificati in relazione a gravissimi fatti, anche di delinquenza comune avvenuti nei primi anni Novanta (delitti della Uno bianca, strage del Pilastro ecc.) ed in seguito dalla cosca dei Corleonesi, secondo uno schema poi collaudato e ricorrente in numerosi successivi gravi delitti di mafia”. I magistrati fanno l’elenco degli eventi che furono rivendicati dalla Falange Armata: “Gli omicidi di Antonino Scopelliti, Salvo Lima, Giuliano Guazzelli; le stragi di Capaci e via d’Amelio, gli attentati del ’93 a Roma, Firenze e Milano”.
Negli ultimi trent’anni attorno alla Falange Armata si sono fatti tanti discorsi. Le tesi più accreditate vedono in questa sigla eversiva un’operazione di depistaggio, la cui matrice, tuttavia, a oggi è rimasta sconosciuta. La prima rivendicazione risale alla prima parte del 1990 e riguarda l’omicidio di Umberto Mormile, operatore all’interno del carcere di Opera, a Milano. La seconda, invece, è quella che interessò proprio il delitto del manager e del dirigente della Megara. “L’operazione è stata fatta dai nostri operai del carcere di Catania”, fu il messaggio recapitato alla redazione Ansa di Torino il 5 novembre, meno di una settimana dopo l’agguato.
Parole che in qualche modo rimandano alla tesi maggiormente sostenuta dalle famiglie delle vittime, secondo le quali all’origine dell’omicidio potrebbero esserci stata la decisione da parte di Francesco Vecchio di porre una stretta ai controlli all’ingresso dell’acciaieria. Una scelta che, hanno più volte ricordato i figli del dirigente della Megara, era nata dal sospetto che tra le persone che usufruivano del permesso di lavorare rilasciato dall’autorità giudiziaria ce ne fossero diverse che in realtà, anziché andare nello stabilimento, sfruttavano i propri turni per portare avanti le proprie attività illecite.
Tra coloro che in passato si sono espressi sulla genesi della Falange Armata, c’è stato anche Francesco Paolo Fulci, diplomatico morto nel 2022 all’età di 91 anni. Fulci, nel corso della sua carriera, è stato anche segretario generale del Cesis, la struttura che coordinava i servizi segreti in Italia. Secondo Fulci, la Falange Armata potrebbe essere stato un’entità nata all’interno della Settima divisione del Sismi, il servizio segreto militare. La stessa che ha avuto un ruolo centrale in Gladio, il progetto nato all’interno della rete internazionale Stay Behind coordinata dalla Nato in funzione antisovietica e che in Italia è sospettata di avere avuto un ruolo in numerose vicende che hanno segnato drammaticamente la storia del Paese.