“Onora la figlia” non è una semplice raccolta di poesie: è un lungo viaggio, a tratti lacerante, attraverso il quale Anna Segre, con una lingua spietatamente intima, attraversa il lutto, la rabbia, la fedeltà, per soddisfare il bisogno di dar voce alla figlia, alla sua eredità muta, alla sua irriducibile domanda d’amore e di giustizia.
Che cosa l’ha spinta a creare questa sua ultima opera?
“È l’esito di un’intera vita, partendo dall’infanzia e dai danni dell’infanzia. La domanda alla base dell’opera è ‘che cosa ne è di me?’. Dopo la morte di mio padre, nel 2019, e ancor di più dopo quella di mia madre nel 2023, mi sono trovata in un momento in cui avevo bisogno di capire come mai sono fatta così, come mai reagisco in questo modo, perché sono una persona così evitante, così spaventata dei conflitti, così – come descrivo nel libro – ritrosa. C’è molto spavento in me rispetto alle relazioni e alla possibile aggressività dell’altro. La risposta a tutto questo è nelle poesie che ho scritto, quasi di getto, nell’arco di appena un anno, tra l’agosto del 2023, quando mia madre stava già male, e agosto 2024. Ogni volta che mi sono fatta la domanda ‘come mai io sono a questo punto?’, la risposta era in molti episodi. Leggendo l’intera raccolta si ha la sensazione di trovarsi in una scena ma in realtà è quella scena ripetuta molte volte, perché un trauma non lo fa uno schiaffo: è molti schiaffi o la minaccia di molti schiaffi”.
In questo viaggio introspettivo nel quale ha avuto un ruolo preponderante il rapporto con i suoi genitori ha trovato tutte le risposte o è rimasto qualcosa di non risolto?
“Ho deciso di ‘salvare’ un genitore e questo non poteva essere mio padre, perché lui era molto aggressivo, imprevedibile, sprezzante, svalutante e lo era in maniera molto capillare. Non è che mio padre era aggressivo ogni tanto o che ogni tanto mi dava uno scappellotto. Il punto è che mio padre tutte le volte che mi guardava mi disapprovava profondamente, si vedeva dalla mimica, dalle sopracciglia, dalla bocca storta, dai denti digrignanti, dagli occhiacci. È difficile da spiegare perché è talmente una goccia che istilla, che fa il buco pure se sei una pietra. Ho deciso di salvare mia madre come il genitore di riferimento, nonostante mio padre fosse un uomo estremamente intuitivo, preparato. Tantissimo di quello che sono era in lui, perché mi ha ‘addestrata’ non soltanto facendo di me una persona estremamente resistente, ma dicendomi le sue intuizioni sugli altri”.
Nel componimento zero scrive “il padre minaccia e la madre fa finta di non vedere o viceversa”. Tra i due ha sì salvato sua madre ma non le ha fatto sconti.
“Il punto è sempre la verità o almeno cercare di essere onesti su quello che non si sa. Quello che si sa è che mia madre si sarebbe dovuta mangiare vivo mio padre per come mi trattava. C’era da parte di mio padre una volontà di piegarmi che avrebbe dovuto farmi diventare completamente pazza o molto aggressiva, comunque non quella che sono adesso. Ciò che sono adesso è il risultato di chi ho incontrato nella mia vita: psicoterapeuti, professoresse di lettere, vicini di casa, baby sitter, boy scout, mamme dei compagnetti. Sono tutti testimoni della mia vita e mi hanno dato un feedback diverso su di me, tenendomi su un binario di salute mentale e su un binario di rettitudine e stemperando quella svalutazione terribile che mio padre faceva tutte le volte che mi guardava”.
In questo complesso rapporto con suo padre, qual è stato il ruolo di sua madre?
“Lo tratteneva. Mia madre era la catena corta di mio padre, per cui mio padre arrivava, mi ringhiava addosso, non arrivava a mordermi perché lei lo tirava via. Lui mi voleva insultare, svalutare, umiliare, domare, però non l’ha mai fatto picchiandomi, il corpo non c’è mai entrato, è proprio una questione mentale, di umiliazione”.
La “catena corta” era abbastanza lunga per farla sentire protetta?
“Mia madre ha lottato ma non ha pensato neanche lontanamente di separarsi. Avrebbe dovuto farlo invece, perché mio padre era una persona intollerabile. Salvo mia madre per tutto quello che ha tentato di fare e per essere stata per me quasi una compagna di prigionia. Non ha fatto a botte per me, però ha fatto quello che ha saputo fare e questo glielo riconosco. A posteriori, da adulta, però le dico che mia madre – che lavorava – avrebbe potuto fare molto. Con l’appropinquarsi della sua morte, capendo che non avrei avuto il tempo di avere la relazione che avevo sognato per tutta la vita, ho deciso di cambiare il mio sistema di valori per capire quanto in me c’era di entrambi. Mio padre, che comunque era una persona estremamente preparata, mi ha insegnato molto sulle relazioni con gli altri, sul potere, sul metodo di studio, su come ragionare e su come rispondere. Da mia madre ho tratto invece spunti su come dialogare, perché lui era competitivo mentre lei era collaborativa”.
C’è una ragione per l’uso non canonico che fa della punteggiatura?
“Virgole e punti li ho messi solo sulla prima poesia, perché quella è una sorta di programma. Il resto l’ho creato come se non dovessi respirare mentre lo dicevo”.
Rientra in questa logica anche la scelta di non titolarle?
“Sì, i titoli avrebbero spezzato la narrazione, mentre in realtà è un unico discorso. A parte la zero, che è un numero simbolico, il cosmo prima di tutto, nelle altre non sono rappresentativi i numeri stessi, ma l’ordine narrativo. Volevo essere fortemente intellegibile, quindi ho fatto di tutto per creare un dialogo tra me e chi mi legge”.
Un’ultima curiosità. Ha scelto lei il titolo?
“Sì, l’editore è stato d’accordo sul titolo perché era una sintesi perfetta”.

