I dati Istat non mentono. Palermo è il capoluogo siciliano che cresce a ritmi più elevati rispetto a quelli fatti registrare dalle metropoli del Nord Italia, ma la ricchezza pro capite è appena un terzo di quella presente nella provincia di Milano. La provincia palermitana ha registrato un incremento del 2,94 per cento, superiore a molte realtà del Settentrione. Il benessere individuale rimane però molto al di sotto della media nazionale a causa di salari bassi, lavori part time o stagionali e numero crescente di working poor, i lavoratori che non guadagnano a sufficienza per vivere.
Sud meglio del Nord
Nel 2024 il Sud Italia è cresciuto più del Nord. È un fatto certificato dal Centro Studi Guglielmo Tagliacarne e da Unioncamere. Il valore aggiunto del Mezzogiorno è aumentato del 2,89 per cento rispetto all’anno precedente, contro l’1,77 per cento del Settentrione e il 2,14 per cento della media nazionale. Una crescita superiore di circa il 50 per cento rispetto a quella delle regioni settentrionali. Ma si tratta solo di una fotografia parziale. Questo perché la ricchezza prodotta per abitante resta drammaticamente bassa nel Mezzogiorno, dove il valore aggiunto pro capite si ferma a 22.353 euro, mentre al Nord supera i 40.158 euro. In altri termini, anche quando cresce più velocemente, il Sud continua a produrre poco. E Palermo diventa il simbolo più evidente di questo paradosso.
Il Paese a due velocità e la geografia della ricchezza
La classifica del valore aggiunto pro capite disegna una mappa dell’Italia che appare cristallizzata. In testa restano le solite province: Milano, con 65.721 euro per abitante, seguita da Bolzano con 55.065, Bologna con 45.125, Roma con 44.160 e la Valle d’Aosta con 43.462. Poli produttivi, industriali, finanziari, amministrativi, capaci di attrarre capitali, competenze e investimenti anche dall’estero. All’estremo opposto, le ultime 28 province sono tutte meridionali. Sud Sardegna, Cosenza e Agrigento chiudono la graduatoria con valori poco superiori ai 18 mila euro pro capite.
Palermo non è fanalino di coda, ma resta comunque in basso, con 20.611 euro per abitante, collocandosi all’83° posto su 107 province italiane. Un dato che racconta più di qualsiasi slogan la distanza tra le due Italie. Temi già affrontati nelle inchieste sui redditi siciliani prodotte dal QdS. Il confronto territoriale è impietoso. Nel Nord-Ovest il valore medio per abitante si aggira intorno ai 41 mila euro, nel Mezzogiorno poco più della metà. È qui che il concetto di crescita perde significato se non si accompagna alla produttività. Dove si produce di più, si guadagna di più. Dove si produce poco, anche una crescita percentuale elevata non basta a colmare il divario accumulato in decenni di sottosviluppo.
Palermo, la crescita che non cambia la sostanza
Nel 2024 la provincia di Palermo ha registrato una crescita del 2,94 per cento, un dato in linea con la media regionale e superiore a molte realtà del Nord. Il valore aggiunto complessivo ha raggiunto 18 miliardi e 317 milioni di euro. Numeri che, isolati, potrebbero suggerire un’inversione di tendenza. Ma la ricchezza pro capite resta inchiodata a 20.611 euro, ben lontana dalla media nazionale di 33.348 euro. Palermo cresce, ma lo fa in settori che generano poco valore stabile.
Le costruzioni segnano un +6,11 per cento, trainate dagli incentivi fiscali e dagli investimenti pubblici. I servizi aumentano del 4,23 per cento, spinti da turismo, commercio e pubblica amministrazione. Ma la manifattura arretra del 2,16 per cento e l’agricoltura cala del 5,54 per cento. È una crescita sbilanciata. L’edilizia beneficia di una spinta temporanea, legata ai bonus e alle opere pubbliche, ma non crea filiere durature. Il terziario assorbe manodopera, ma raramente produce redditi elevati. L’industria, che altrove garantisce salari più alti e continuità occupazionale, è debole o assente. Senza manifattura, senza innovazione, senza logistica avanzata, la crescita resta fragile e reversibile.
Il lavoro che c’è, ma non basta
Il valore aggiunto pro capite non misura quanto una persona guadagna, ma quanta ricchezza un territorio è in grado di produrre e distribuire. Quando questo indicatore resta basso, significa che l’economia locale non genera abbastanza valore per sostenere redditi dignitosi, consumi e investimenti. Nel Palermitano, gran parte dell’occupazione è concentrata in lavori stagionali, part time o a bassa qualificazione. Secondo le stime Istat, la retribuzione media annua in Sicilia è inferiore di circa 6 mila euro rispetto al Nord, ma nel caso di Palermo il divario può superare i 7 mila euro. Un lavoratore siciliano guadagna in dodici mesi quanto un lavoratore settentrionale percepisce in otto.
Il costo della vita, spesso citato come fattore compensativo, non colma questo divario. I prezzi di beni essenziali come alimentari, carburanti e utenze sono ormai simili su scala nazionale. Il risultato è un impoverimento silenzioso: le famiglie vedono crescere le spese più velocemente delle entrate, mentre la ricchezza prodotta non riesce a circolare. Ed è qui che si annida il fenomeno della working poor generation. Nel Palermitano quasi un lavoratore su quattro è impiegato in modo discontinuo. I contratti a tempo determinato, le collaborazioni stagionali e i servizi a bassa intensità di capitale assorbono manodopera con stipendi che raramente superano i 1.100 euro mensili. I settori ad alto contenuto professionale resistono, ma non bastano a riequilibrare il quadro. L’industria, dove i salari medi superano i 1.600 euro, resta marginale.
Risparmio, consumi e il circolo vizioso della povertà
Secondo la Banca d’Italia, nel 2024 solo il 23 per cento delle famiglie siciliane dichiara di riuscire a risparmiare qualcosa ogni mese, contro il 41 per cento del Nord. Un divario che si riflette direttamente sui consumi. Meno risparmio significa meno capacità di spesa, meno domanda interna, meno crescita per il tessuto produttivo locale. In Sicilia il 9% delle coppie non dispone di alcun reddito da lavoro, il doppio rispetto alla media nazionale.
Negli ultimi dieci anni la provincia di Palermo ha perso oltre 40 mila residenti, molti dei quali giovani con titoli di studio medio-alti. Secondo le stime Svimez, ogni anno la Sicilia perde l’equivalente di due punti percentuali di Pil a causa della migrazione giovanile. È il capitale umano più prezioso a partire, alimentando ulteriormente il divario. Non va meglio nelle altre province dell’Isola. Basti pensare che città come Messina, dal 1981 a oggi, mostrano un passivo monstre con -40 mila abitanti.
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