La recitazione è stata una sorta d’inaspettato rapimento. Quell’incontro con il palcoscenico, un mondo stranissimo e sconosciuto, fece nascere una scintilla. Gli dicevano che aveva delle qualità. Lui, all’epoca, avrebbe fatto l’archeologo. Poi la vita lo ha portato felicemente altrove.
Attore oggi tra i più applauditi del panorama italiano, Paolo Briguglia torna in teatro con l’adattamento di ‘Perfetti sconosciuti’ di Paolo Genovese, qui anche regista della messinscena. Prodotto dalla compagnia Nuovo Teatro diretta da Marco Balsamo in coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana e Lotus Production, lo spettacolo dal cast stellare arriva sull’Isola per uno speciale doppio appuntamento: venerdì 19 e sabato 20 dicembre 2025 ore 21 al Teatro Abc di Catania.
Siciliano Doc, che significato assume recitare nei suoi luoghi?
“È sempre un qualcosa in più. Senti che devi fare gli onori di casa. Sul piano attoriale aumenta la responsabilità, su quello umano l’emozione”.
Sul palco una commedia graffiante che continua a svelare con intatta precisione la fragilità di rapporti e relazioni. Anche lei, talvolta, ha come la sensazione di ritrovarsi in una cristalleria dai corridoi stretti?
“Le relazioni umane, un po’ per tutti, rappresentano una fragile cristalleria, a cui prestare la massima attenzione. Si corre sempre il rischio di non dedicare il giusto ascolto, di ferire, di fraintendere, oppure di creare dei sedimenti di incomprensione e di rabbia che si accumulano”.
Dal testo viene a galla una verità inequivocabile: siamo incapaci di comunicare in modo sincero con i nostri simili.
“Non riusciamo a essere sinceri con gli altri perché non lo siamo con noi stessi. Se ci fosse un minimo di educazione sotto questo aspetto, la gente sarebbe molto più in grado di vivere in armonia, innanzitutto con sé stessa e poi con gli altri”.
Qual è l’atteggiamento che mal sopporta?
“L’arroganza, che ha in sé superbia, superiorità, aggressività, quando poi alla base, invece, non c’è consistenza. Al contrario, ti accorgi che le persone di valore vanno in giro con grande umiltà, la loro voce è autorevole ma silenziosa, è sostenuta dalla forza delle loro azioni”.
Qualche esempio?
“Nel mio percorso professionale sono stato fortunato perché, fin da ragazzino, ho partecipato a dei cast internazionali potendo recitare con attori immensi, come Tilda Swinton e Michel Bouquet, che però sul set erano molto umili, molto silenziosi, molto concentrati sul lavoro, sul rispetto degli altri. Per contro, ho avuto a che fare, invece, con attori del mio Paese, anche largamente conosciuti, che però si ponevano con grande arroganza, grande invadenza dello spazio degli altri, dello spazio del set. E questo mi ha sempre dato estremamente fastidio”.
Aperto il sipario, devi dominare le emozioni, se hai paura si vede. Lei è bravo a nascondere?
“Sono molto più bravo sul palcoscenico che davanti alla macchina da presa. In teatro sento il respiro della sala, il respiro di tutto questo pubblico insieme che si unisce al mio, ed è straordinario. Io non sono lì per me, ma per portare una storia, per creare una trasformazione, e non ho paura. Mi sento veramente a mio agio, non ho bisogno subito di parlare. Riesco a fare nascere la parola dal silenzio, dalla relazione con gli altri attori. Mi viene naturale. Al cinema, invece, ho dovuto faticare molto”.
Abbandonare l’ansia da prestazione, è un esercizio che le risulta facile?
“Col tempo, con lo studio e con gli strumenti adatti, ho imparato a tenere l’ansia sotto controllo. Si tratta di esercizi di meditazione, di concentrazione, di respiro, tipo il lavoro dei mental coach con gli sportivi in preparazione e durante le gare. Torna davvero utile per gestire al meglio il momento della performance”.
Orazio Costa Giovangigli affermava che il teatro era rimasta forse l’unica strada ancora per riuscire a salvarsi. È ancora così?
“A differenza dei cinema, che – con l’avvento delle piattaforme di intrattenimento in streaming – sono drammaticamente vuoti, la gente ha bisogno di andare al teatro perché è il luogo dove si può cambiare. Cambiamo noi attori, quando dobbiamo interpretare un personaggio, non siamo più noi stessi, ci confrontiamo con emozioni diverse, pensieri diversi, relazioni diverse, e facciamo cambiare il pubblico, quando la storia è una narrazione bella, forte, potente”.
Ogni volta andare in scena come se fosse l’ultima, quindi?
“Sì, assolutamente! È questo il senso. Bisogna dare tutto, perché anche ‘quella’ sera è unica. Il che si traduce con essere presenti: agli altri, alle relazioni, alla sala”.
Siamo uno, nessuno e centomila. Abili nel metterci una maschera a seconda delle circostanze. Ce n’è una che indossa con particolare disinvoltura?
“Soprattutto nel lavoro, bisogna essere sempre molto smaliziati, mostrarsi forti, duri, aggressivi. Trump insegna: prima dai un pugno e poi ti metti a trattare. Dal canto mio, invece, sono – per natura – una persona che, prima di discutere di qualunque cosa, ha bisogno di stabilire un incontro, una connessione con l’altro che sia il più possibile rispettosa e veritiera. Quindi, al contrario, mi offro smascherato, senza corazza, peccando forse di ingenuità”.
Per un ‘buono’ come lei, ‘Brennero’ è stata una grande rivalsa.
“Finalmente interpretavo un serial killer, una sfida. Tutta la vita ho dovuto combattere con il fatto che, alla fine, vieni inevitabilmente catalogato: hai quell’indole, quindi fai questo. Mi offrivano quasi esclusivamente il personaggio del fratello buono, del figlio buono, del timido, dell’amico dell’eroe… Tanto che, a un certo punto, soffocato da questi ruoli, ho cominciato a rifiutarli. Ne è seguito un periodo difficile. Ho sofferto molto, perché sono rimasto fermo e avevo paura di non lavorare più. Poi, a poco a poco, sono ripartito e sono arrivati dei ruoli diversi, molto controversi pure, come quello in ‘Brennero’. Da lì, oggi mi offrono finalmente anche personaggi cattivissimi”.
Come in ‘Le libere donne’, attesissima fiction Rai che sta per uscire.
“Ho interpretato un uomo di una crudeltà e di una cattiveria indicibili, nei confronti di questa donna che sposa, poi fa impazzire e la rifugia in una clinica psichiatrica per sequestrare tutti i suoi beni. Insomma, un personaggio molto complesso e sfaccettato, che spero vi piacerà”.
La sua Palermo, invece, ha fatto da cornice alla serie ‘I fratelli Corsaro’.
“È stata un’esperienza meravigliosa che mi ha permesso di raccontare una parte diversa della mia terra, lontana dai soliti stereotipi legati alla mafia. Mi sono divertito a parlare con la cadenza palermitana con la quale sono cresciuto. L’ho messa lì in un personaggio che, seppur molto diverso da me, mi ricordava un mix dei miei compagni di liceo. Grazie a Roberto Corsaro, ho raccontato il mio mondo, quello dal quale provengo”.
Interprete di grande spessore, cosa le piacerebbe si dicesse di lei?
“L’importante è fare il proprio lavoro con grande passione e dedizione, cercando sempre di dare il meglio di sé. Quanto al sottoscritto, mi piacerebbe che si pensasse a Paolo Briguglia come a qualcuno che è riuscito a portare il suo contributo, quale che sia, alla professione dell’attore in Italia”.

