Ogni certo numero di anni ritorna di moda una discussione sulla tassazione dei patrimoni accumulati. Va osservato che non sempre sono state corrisposte le imposte nel momento in cui si sono manifestati i redditi. Spesso sono stati frutto anche di evasione fiscale, di operazioni internazionali, anche con i paradisi fiscali, e tante altre manovre che agiscono nell’ombra.
Tuttavia, nel ragionamento che segue, diamo per scontato che i patrimoni – o meglio i super patrimoni – si siano accumulati avendo ottemperato l’obbligo di pagare le relative imposte.
La discussione sull’opportunità di tassarli è sterile se non si fissa una base oltre cui provvedere di conseguenza. Per esempio, indicare una soglia da un miliardo in sù. Solo ragionando su un dato preciso può essere utile discutere l’opportunità di una tassazione relativa, partendo dal punto di vista che chi detiene ricchezze dalla soglia indicata, non avrà alcuna influenza negativa se paga una piccola imposta annuale.
In altri Paesi la patrimoniale esiste. Per esempio in Svizzera si paga lo 0,9 per cento. Se anche in Italia si utilizzasse la stessa aliquota, significherebbe che chi ha un patrimonio di un miliardo pagherebbe nove milioni e non sarebbe un sacrificio, perché si tratta comunque di una relativa piccola cifra. La percentuale potrebbe essere eventualmente abbassata allo 0,5 cosicché la patrimoniale diventerebbe di appena cinque milioni l’anno, su un miliardo.
Il principio equitativo di una Comunità, secondo cui le ricchezze che vengono accumulate, lecitamente o meno, debbano essere redistribuite, è sacrosanto, ma non avviene.
Nel nostro Paese, secondo una recente statistica (Global Wealth Report) la ricchezza è del quarantadue percento degli/delle italiani/e, mentre, d’altra parte, vengono certificati, non si sa bene come, 5,6 milioni di poveri, dei quali, come abbiamo scritto più volte, riteniamo che almeno la metà non siano tali in quanto operano nell’economia sommersa, stimata in 174 miliardi.
Se la discussione sulla patrimoniale fosse concreta, non credo che vi possa essere chi abbia obiezioni da fare, perché il sacrificio di chi ha patrimoni sopra il miliardo sarebbe minuscolo e l’utilità per la Comunità sarebbe elevata.
La questione riguarda il nostro Paese perché le casse dello Stato sono sempre più esangui in quanto le uscite superano le entrate. Va sottolineato che non tutte le uscite sono lecite e utili. Molte di esse alimentano l’economia sommersa e tante altre sono del tutto superflue, per cui potrebbero essere tranquillamente carcerate.
Eppure tutto questo rimane in una sorta di limbo nebuloso, che non consente di fare chiarezza e di approdare a delle decisioni limpide e inequivocabili: tutti/e devono pagare le imposte e chi accumula ricchezza al di sopra di una soglia determinata, deve pagare un piccolo contributo alla Comunità.
Tutte le uscite di Stato, Regioni e Comuni dovrebbero essere qualificate e orientate ai servizi da rendere ai/alle cittadini/e soprattutto a quelli/e meno abbienti. Ma non è così perché al loro interno si annidano spese clientelari e superflue, con la conseguenza che esse costituiscono uno spreco che andrebbe assolutamente evitato.
Perché nelle Pubbliche amministrazioni dei diversi livelli vi è questo spreco? In qualche misura perché non vi è una buona organizzazione delle risorse umane, delle strutture, delle risorse finanziarie; in secondo luogo perché manca il Pos (Piano organizzativo dei servizi); in terzo luogo perché manca totalmente il sistema dei controlli tassativi che mettano a confronto obbiettivi veri e risultati.
Vi è anche una quarta questione che noi abbiamo evidenziato più volte e cioè che le Pubbliche amministrazioni dei tre livelli non prevedono all’interno dell’organico o all’esterno una figura che potrebbe essere denominata “esperto/a in efficienza”; se vi fosse, l’esperto/a, dovrebbe controllare continuamente che tutti i servizi funzionino e che le relative spese sostenute siano adeguate al raggiungimento dei risultati.
Ancora una volta, il confronto fra obiettivi e risultati è indispensabile.

