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Patrimoniale? Tante. Una per i super ricchi

Patrimoniale? Tante. Una per i super ricchi
tasse

Imu, auto, imposte, bollo

A nostro modesto parere i rinnovatori di Avs e di una parte del Pd hanno lanciato un assist alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: serve la patrimoniale. Ma Giorgia non l’ha afferrato perché poteva essere l’occasione per annullare un’iniziativa degli avversari traendone vantaggio. Vi spieghiamo il ragionamento.
La patrimoniale in sé non è né di destra né di sinistra, ma è un’imposta che andrebbe applicata ai grandi patrimoni, mettiamo dai cento milioni di euro in su, con una percentuale relativamente piccola, mettiamo dello 0,8 per cento. Ora vi chiediamo come potrebbe influenzare il patrimonio di chi possiede oltre cento milioni di euro se pagasse ogni anno ottocentomila euro.

Dunque – sempre a nostro modesto avviso – la presidente Meloni ha sbagliato a dire: “Con noi mai la patrimoniale”. Avrebbe infatti dovuto accogliere l’urlo di protesta sinistroso e rispondere: “Certo, anche noi vogliamo la patrimoniale”. Con questa risposta avrebbe messo in naftalina il bavaglio ai proponenti e ne avrebbe tratto vantaggio dal novantacinque per cento della popolazione che non ha un patrimonio superiore a cento milioni di euro.

Peraltro, dobbiamo ricordare la differenza fra imposte sulla ricchezza prodotta (reddito) e imposte sulla ricchezza accumulata (patrimonio). Le imposte sul patrimonio esistenti sono diverse e ve ne elenchiamo qualcuna: Imu; bollo auto, imbarcazioni e aerei; imposta di registro fissa, ma anche variabile, su compravendita di mobili e immobili; imposta ipotecaria e catastale; imposta di successione e donazione, fatta salva la franchigia per i parenti diretti; il canone Rai e via elencando.
Tutte le imposte che precedono erodono il patrimonio di tutti/e i/le cittadini/e, a prescindere dal loro reddito, per la differenza fra quest’ultimo e il patrimonio prima indicato.
Conseguentemente un’ulteriore imposta sul patrimonio, ripetiamo, al di sopra dei cento milioni di euro, con un’aliquota modesta dello 0,8 per cento, non avrebbe cambiato nulla per i/le cittadini/e, ma avrebbe fornito alla presidente Meloni un’arma formidabile per acquisire il consenso sulla materia del novantacinque per cento degli/delle elettori/trici.

Vi è un’altra questione sul piano fiscale e cioè che la pressione ha raggiunto il quarantadue per cento, cioè oltre i quattro-decimi dei redditi dei/delle cittadini/e sono tassati e vanno all’Erario, ovvero costituiscono le entrate della legge di bilancio, quella che comunemente viene chiamata “manovra”, come se si trattasse di guidare un’auto o una nave.
Dunque, la maggior parte dei/delle cittadini/e contribuisce alle entrate erariali; vi è invece una parte di essi/e che resta nascosta e che crea, secondo il Ministero dell’Economia e Finanze (Mef), un’economia sommersa pari a ben 182 miliardi, cioè il 9,1 per cento del Pil.
Ora, è evidente che dentro tale economia sommersa vi sono cittadine e cittadini che lavorano in nero e che quindi risultano fiscalmente e anagraficamente povere/i anche se non lo sono. Dal che si può dedurre facilmente che non è vero che in Italia vi sono 5,7 milioni di poveri, perché si può stimare ragionevolmente che forse 1,5 milioni di esse/i lavora nell’economia sommersa e quindi non è per niente povera/o.

L’economia sommersa, oltre a creare una forte diseguaglianza fra i/le cittadini/e, genera anche un’evasione fiscale stimata da più parti fra gli otto e i cento miliardi, che se fossero incassati dallo Stato, potrebbero generare investimenti e interventi analoghi, che produrrebbero un aumento di un paio di punti del Pil e un’occupazione forse di cento o duecento mila italiani/e. Quindi il danno che fanno questi abietti soggetti è enorme, perché tutta la Comunità ne soffre per i riflessi indicati e altri facilmente supponibili.

Perché vi è questa economia sommersa nel nostro Paese e non c’è – almeno in questa misura – negli altri paesi europei? Perché la macchina pubblica non è in condizione di scovare tali delinquenti, che continuano a evadere, a lavorare in nero, a non pagare le imposte, ma a usufruire regolarmente dei servizi pubblici.
Più volte abbiamo chiesto l’inserimento nella Carta d’identità elettronica (Cie) di una validazione fiscale. Ma da questo orecchio i/le governanti non ci sentono, per paura di perdere voti.