Intervista a Bruno Mariani, segretario nazionale del sindacato “Confsal Pesca”. “Contrari al Piano d’azione Ue, impone misure dirompenti per l’assetto del settore”
ROMA - In Italia sono registrati 325 porti pescherecci, la flotta peschereccia è composta da oltre 12.000 unità, siamo il quarto Paese nell’UE-27 per quanto riguarda la produzione di pesce d’allevamento e l’undicesimo in termini di catture. La naturale vocazione del Belpaese al mare e ai suoi “doni” è evidente a tutti; l’Eurostat in un recentissimo report sull’acquacoltura certifica anche che nel 2021 quattro paesi dell’Ue rappresentavano collettivamente circa due terzi (68%) della produzione totale di organismi acquatici allevati: Spagna il 25%, Francia il 17% e Italia e Grecia il 13%. Nell’Ue sono state allevate circa 1,1 milioni di tonnellate di organismi acquatici, per un valore di 4,2 miliardi di euro. L’acquacoltura, nota anche come aquafarming, prevede la coltivazione controllata di pesci, molluschi e crostacei.
Qual è lo “stato di salute” del settore italiano e siciliano?
Una realtà molto importante per l’economia del Paese e della nostra Isola. Qual è lo “stato di salute” del settore italiano e siciliano? Lo abbiamo chiesto al segretario nazionale di Confsal Pesca (sindacato dei lavoratori del settore ittico e agroalimentare), Bruno Mariani. “Il settore ittico italiano e siciliano – dichiara Mariani – è complessivamente vivo, anche se con alcune criticità e problemi reiterati. L’Italia è il secondo produttore di prodotti ittici dell’Unione Europea, con una produzione totale di 1,2 milioni di tonnellate nel 2021. Per quanto riguarda la Sicilia, nello specifico, l’isola ha una lunga tradizione nella produzione di organismi acquatici, come pesce e frutti di mare, poiché gode anche di una posizione geografica favorevole e di un clima particolarmente adatto per l’acquacoltura. La Sicilia è infatti la seconda regione italiana per produzione ittica, con 150.000 tonnellate, pari a circa il 12% della produzione nazionale”.
Le criticità non mancano
Le criticità però non mancano e alcune preoccupano maggiormente la Federazione sindacale in termini di ricadute sui posti di lavoro: “Prima di tutto l’aumento dei costi di produzione – sottolinea il Segretario – in particolare quelli energetici, perché stanno mettendo a dura prova la redditività delle imprese del settore ittico. Questo potrebbe portare a una crescita della disoccupazione. Ma ci preoccupa anche l’invecchiamento della popolazione attiva. Il settore ittico è caratterizzato da un’alta percentuale di lavoratori anziani. L’invecchiamento della popolazione attiva potrebbe portare a una carenza di manodopera qualificata, con un impatto negativo sull’occupazione. Per finire la concorrenza da parte dei paesi extra-UE, in particolare quelli asiatici, che stanno mettendo a dura prova le imprese del settore ittico del nostro Paese. Questo potrebbe portare a una perdita di posti di lavoro, settori della trasformazione e della commercializzazione, compresi”.
Rispetto alle politiche Ue per la tutela del mare, il tema è molto ampio e spinoso come nel caso della tanto discussa pesca a strascico. “L’estate scorsa la Confsal pesca si è schierata per ribadire il proprio no al Piano d’azione Ue – conclude Mariani – che impone una serie di misure dirompenti per l’assetto del settore. Il Piano promosso dal Commissario alla pesca ed all’Ambiente Virginijus Sinkevicius prevede una forte limitazione della pesca a strascico in tutta Europa entro il 2030 e propone la creazione di ulteriori aree marine protette, senza considerare l’impatto sociale ed economico su imprese, lavoratori, territori e basandosi su dati scientifici non sempre accurati. Un Piano che ci porterà alla totale dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento di prodotti ittici. Si consideri che in Italia la pesca a strascico rappresenta il 20 per cento della flotta totale peschereccia con 2088 unità, circa 7000 lavoratori, il 30 per cento degli sbarchi, il 50 dei ricavi”.