Catania – Il Policlinico Universitario “Gaspare Rodolico–San Marco” di Catania è l’unico centro italiano autorizzato dal Centro Nazionale Trapianti e dall’Istituto Superiore di Sanità a eseguire trapianti di utero nell’ambito di un protocollo sperimentale. A guidare l’équipe è il professor Pierfrancesco Veroux, ordinario di Chirurgia Vascolare e direttore del Centro Trapianti, ed il professore Paolo Scollo. Insieme negli ultimi anni hanno portato la Sicilia e l’Italia a essere protagoniste di un traguardo di rilevanza mondiale. Il primo trapianto è stato eseguito nell’agosto del 2020 su una donna affetta dalla sindrome di Rokitansky. Due anni dopo è nata Alessandra, la prima bambina italiana – e sesta al mondo – a venire alla luce dopo un’operazione di questo tipo.
Un figlio dopo il trapianto di utero
Dopo quel primo caso, al Policlinico sono stati realizzati altri due trapianti: il più recente a gennaio 2023, quando è stato impiantato l’utero prelevato da una giovane donatrice deceduta a Cremona e trasportato a Catania con un aereo della Protezione Civile. Poi a settembre 2025, da cui è nato Mattia, figlio di Tiziana. “È nato un bambino assolutamente sano, partorito al nono mese, pesa tre chili. La mamma sta benissimo. Tiziana non si è arresa mai davanti a niente. Il trapianto di utero non è un salva vita, ma fatto per dare la vita. Nessun atto terapeutico in grado di dare un’altra vita” ha spiegato Veroux, sottolineando l’importanza non solo clinica ma anche umana dell’intervento.
Al Policlinico di Catania terminato il programma sperimentale
Catania aderisce a un programma sperimentale, che si spera diventi ordinario. “Abbiamo in lista altri pazienti, ma il protocollo sperimentale iniziale durava tre anni ed oggi è concluso. Nelle more, è stato sospeso l’arruolamento di nuove pazienti e dopo i primi tre trapianti ci siamo dovuti fermare” racconta il professore.
Le difficoltà non riguardano soltanto le autorizzazioni. “Il problema principale è la mancanza di donatrici idonee. I criteri sono molto restrittivi e di fatto escludono una serie di possibili candidate. Per questo motivo, nonostante l’interesse crescente, la disponibilità di uteri resta molto limitata”.
La procedura, complessa e delicata, richiede non solo un intervento chirurgico di alta precisione ma anche un percorso lungo monitoraggio perché “l’utero, grande in realtà come una mela, diventa cinquanta volte più grande durante la gravidanza”. “Il primo step è il trapianto – ha ricordato il professore Pierfrancesco Veroux -, ma l’utero deve poi adattarsi alla gravidanza ed è fondamentale che sia perfettamente funzionante”.
Non mancano aspetti etici. “Negli altri centri del mondo si procede con la fecondazione assistita, creando diversi embrioni e congelandoli. Quando l’utero trapiantato è funzionante, si trasferisce l’embrione. Noi invece congeliamo soltanto l’ovulo e al momento dell’impianto creiamo l’embrione da trasferire. È una procedura molto più accettata dalla Chiesa, ad esempio, perché evita di lasciare embrioni in eccesso”.
L’impatto psicologico sulle pazienti che non hanno mai avuto un utero prima del trapianto è importante. “Uno degli aspetti più toccanti che abbiamo vissuto è il ritorno delle mestruazioni. Per una donna normale può sembrare una seccatura, ma per chi non ha mai avuto l’utero significa sentirsi donna per la prima volta. La cosa bella è che la gravidanza è davvero la sua, perché non c’è stato ingresso di ovuli esterni”.
Necessità di superare la fase sperimentale
Guardando al futuro, il professore sottolinea la necessità di superare la fase sperimentale: “La speranza è che si possa uscire dal protocollo e arrivare a un trapianto standard, con le dovute attenzioni, su scala nazionale. Non è un trapianto che salva la vita, ma è un trapianto che restituisce la possibilità di una vita nuova. Nessun altro atto terapeutico è in grado di dare un dono simile. Sarebbe opportuno – ha concluso Veroux – anche permettere la donazione utero da madre a figlia”.

