Intervistato dal direttore Carlo Alberto Tregua e dal vice direttore Raffaella Tregua, il direttore generale dell’Azienda ospedaliero universitaria Policlinico Gaspare Rodolico-San Marco di Catania, Gaetano Sirna, risponde alle domande del QdS.
Qual è l’attuale fotografia del Policlinico di Catania in termini di dimensioni, volumi di attività e quali sono le principali sfide organizzative che state affrontando?
“Il Policlinico si confronta quotidianamente con una domanda di servizi sanitari particolarmente elevata, un’attrattività che si traduce in volumi operativi di grande portata. Basti pensare che, con circa 3.470 dipendenti, nel 2024 l’istituto ha gestito 1.200.000 prestazioni ambulatoriali e 30.000 ricoveri. Un dinamismo che si è riflesso anche sul piano finanziario, con un incremento di fatturato di 14 milioni di euro rispetto all’anno precedente. A questi numeri, già di per sé eloquenti, si aggiunge la pressione costante sui punti di emergenza: il Pronto soccorso registra 30.000 accessi a Rodolico e 24.000 a San Marco, quest’ultimo un presidio inaugurato nel 2021 proprio per far fronte alla crescente domanda”.
Un aspetto cruciale è la gestione delle prenotazioni da parte dei pazienti. Molti lettori ci hanno segnalato, non per la vostra struttura ma in generale per quanto riguarda il panorama sanitario siciliano, difficoltà in merito ai tempi di prenotazione. Voi in che modo state affrontando la questione?
“Al cuore pulsante di questa complessa organizzazione cui ho fatto riferimento prima, soprattutto per quanto riguarda l’accesso ai servizi, troviamo il Centro unico di prenotazione (Cup). Abbiamo un Cup con il quale riusciamo a gestire le prenotazioni. Tuttavia, è proprio qui che emergono alcune delle criticità più sentite. Il sistema, infatti, è sottoposto a una pressione che va ben oltre la sua capacità nominale. Riceviamo in media circa 5.000 chiamate al giorno, con punte di 10.000. Il nocciolo del problema è strutturale: il Cup è tarato per 2.000-2.500 telefonate al giorno, ma ora ne riceviamo circa il doppio a volte perfino cinque volte tanto. Questo da un lato ci rende orgogliosi, perché vuol dire che siamo riusciti a diventare attrattivi nei confronti dell’utenza, ma dall’altro è evidente che con un carico del genere il sistema non è in grado di reggere. E mi riferisco sia al Cup, per quanto riguarda le telefonate, che in generale agli ambulatori”.
Quali sono le conseguenze della situazione che ci ha descritto?
L’obiettivo è rendere all’utenza un servizio sempre più efficiente, ma allo stato attuale non è prevedibile quando si potrà passare a una prenotazione digitale su vasta scala, anche perché il sistema attuale si collega a un Cup regionale, che deve ancora essere affinato nel suo funzionamento. Di conseguenza, una vera e propria rivoluzione digitale, che permetta al cittadino di prenotare agevolmente online, stenta a concretizzarsi. Non esiste ancora un sistema completo e accessibile all’utente esterno: la prenotazione digitale è attualmente una prerogativa del nostro personale medico quando si fissano i follow-up di controllo. Le prime visite, fondamentali per l’accesso alle cure, devono inderogabilmente passare attraverso il Cup tradizionale, sia per motivi organizzativi che di trasparenza, perpetuando così la dipendenza dal canale telefonico”.
Ci diceva delle difficoltà del Cup regionale…
“Le sfide non si limitano alla gestione interna, ma si estendono anche all’interazione con il sistema sanitario più ampio. I Cup sono collocati in modo che funzionino per alcune prestazioni integrate; tuttavia, c’è ancora difficoltà di collegamento tra i Cup delle varie aziende sanitarie, il che permette il funzionamento solo per alcune prestazioni. Questa frammentazione, pur avendo il merito di evitare duplicazioni di prenotazioni, ostacola una visione e una gestione realmente integrate a livello regionale. La transizione tecnologica rappresenta ancora oggi una delle sfide più impegnative per snellire e modernizzare l’accesso ai servizi sanitari”.

Indispensabile intervenire per limitare la crescita di prestazioni inappropriate
Si parla spesso di disservizi in sanità, ma il Policlinico di Catania dimostra che è possibile produrre servizi efficienti con una gestione virtuosa delle risorse. Su cosa, secondo lei, è prioritario intervenire?
“Una delle sfide centrali per la sostenibilità del sistema sanitario risiede nell’assicurare che ogni prestazione erogata sia effettivamente necessaria. Spesso si ritiene che per ridurre le liste d’attesa sia sufficiente aumentare l’offerta, ma il mercato sanitario presenta dinamiche particolari: è l’offerta stessa che tende a generare ulteriore domanda. Un esempio emblematico è l’esperienza con i servizi di radiologia: l’apertura notturna e festiva di un servizio, pur azzerando inizialmente le attese, ha portato a una triplicazione delle prenotazioni non appena la notizia si è diffusa. Bisogna quindi intervenire su altro: si stima che una percentuale significativa delle prestazioni erogate, forse tra il 30% e il 50%, possa non essere pienamente appropriata. Provvedimenti su questo fronte sono quindi essenziali”.
Quali sono le difficoltà nell’attuare questo genere di strategia?
“In questo scenario, il medico di medicina generale riveste un ruolo cardine, essendo il primo punto di contatto del cittadino con il sistema e colui che dovrebbe guidare il paziente verso il percorso di cura più idoneo. Tuttavia, la realtà presenta delle complessità. Il medico di base può trovarsi nella difficile posizione di dover mediare tra la richiesta del paziente, talvolta influenzata da informazioni reperite autonomamente online, e la reale necessità clinica. Questa dinamica si inserisce in un contesto in cui il ruolo tradizionale del medico di medicina generale, quello di ‘guardiano del ponte’ che trasforma il bisogno di salute in prestazione appropriata, si è in parte affievolito. Non si tratta di addossare responsabilità, soprattutto considerando il crescente carico burocratico che negli anni ha distolto i medici dalla loro funzione clinica primaria. La progressiva perdita di un rapporto diretto e continuativo con i numerosi pazienti, talvolta mediato da email o messaggi, ha contribuito a un senso di disallineamento nel percorso di cura. Se il medico non riesce a svolgere appieno questa funzione di filtro e guida, è il paziente stesso che, sulla base delle informazioni che trova, orienta le proprie richieste, spesso non in modo appropriato”.
Linee guida per garantire buone pratiche condivise
Per promuovere un uso più consapevole delle risorse sanitarie, quali evoluzioni culturali e organizzative sono, a suo avviso, prioritarie?
“Un ostacolo al miglioramento dell’efficienza risiede spesso nelle abitudini consolidate. Non di rado, si osservano procedure seguite per consuetudine, senza una costante riflessione critica sulla loro effettiva necessità. L’esempio di un professionista che, per prassi, ripeteva mensilmente un esame diagnostico intrinsecamente stabile nel tempo, come il gruppo sanguigno durante una gravidanza, illustra come l’abitudine possa portare a sprechi, talvolta inconsapevoli. È il ‘non mettersi in discussione’ che può diventare un freno al progresso e all’ottimizzazione delle risorse. Per superare tutto ciò è fondamentale un approccio sistemico: si avverte la necessità di un ‘disegno organizzativo condiviso’ che possa valere per tutte le aziende sanitarie, trasformando le buone pratiche e le esperienze positive in protocolli e linee guida chiare. Queste non devono essere percepite come una limitazione dell’autonomia clinica, bensì come corridoi che indirizzano verso le scelte più appropriate, garantendo al contempo la qualità e la sicurezza delle cure. L’obiettivo è creare un sistema in cui le indicazioni siano chiare e supportate da una logica condivisa. In questo contesto, anche il concetto di ‘aziendalizzazione’ della sanità merita una riflessione. Non si tratta di applicare una logica meramente industriale, dove si produce solo ciò che è economicamente conveniente, ma di adottare un approccio gestionale che assicuri come ‘se una cosa serve, si fa’, con la massima appropriatezza. È una questione di buon senso e di consapevolezza diffusa: anche azioni apparentemente banali, se orientate all’efficienza, possono liberare risorse ingenti. La piena comprensione che evitare una prestazione inappropriata da pochi euro contribuisce a garantire la disponibilità di terapie innovative e costose per chi ne ha realmente bisogno è un passaggio culturale sempre più cruciale”.

