Rapporto Istat su Agenda 2030 dell’Onu: Italia seconda in Europa per presenza delle donne nei consigli di amministrazione e nei ruoli di alta dirigenza
ROMA – L’Istat, nel suo Rapporto sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) dell’Agenda 2030 dell’Onu, ha rivelato che l’Italia, alla fine del 2021, ha occupato la seconda posizione in Europa (38,8%), subito dopo la Francia (45,3%), per presenza femminile nei CdA e nei ruoli di alta dirigenza delle grandi società quotate in borsa (il dato medio dei Paesi Ue27 è 30,6%). Ricordando che l’obiettivo fissato dalla Strategia Nazionale per la Parità di genere 2021 è il 45%, si tratta, comunque, di un dato assai incoraggiante
Il dato appare ancora più significativo se si prendono in considerazione le sole società italiane quotate in borsa, dove la presenza femminile nei consigli di amministrazione raggiunge il 41,2%, facendo segnare, rispetto al 2020, un significativo incremento percentuale, pari a +2,4%.
I dati forniti dall’ente di ricerca confermano, poi, una quota stabile di donne in posizioni dirigenziali ed intermedie (23%), che, tuttavia, appare assai lontana dal raggiungimento dell’obiettivo del 35%, fissato dalla Strategia Nazionale per la Parità di genere: sono sempre troppo poche le donne che ricoprono i ruoli di amministratore delegato (solo l’1,9% nell’ambito di 16 società, rappresentative del 2,4% del valore totale di mercato) e di presidente o presidente onorario (un esiguo 3,5% per 30 società rappresentative del 20,7% della capitalizzazione complessiva).
L’Agenda globale definisce 17 Obiettivi per lo sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals – SDGs nell’acronimo inglese), inquadrati all’interno di un programma d’azione più vasto, costituito da 169 target o traguardi, ad essi associati, da raggiungere in ambito ambientale, economico, sociale ed istituzionale entro il 2030, i quali rappresentano una bussola per porre l’Italia e il mondo su un sentiero sostenibile. Il processo di cambiamento del modello di sviluppo viene monitorato attraverso i Goal, i Target ed oltre 240 indicatori: rispetto a tali parametri, ciascun Paese viene valutato, periodicamente, in sede Onu oltre che dalle opinioni pubbliche nazionali ed internazionali.
È bene sottolineare che, quando si parla di diversità all’interno dei CdA, non si fa riferimento solo alle questioni di genere (più donne), ma anche ad una molteplicità di altri fattori, come etnia, età, titoli di studio, qualifiche professionali, ruoli degli amministratori non esecutivi, ma anche elementi meno tangibili come esperienza, competenza ed attitudini personali.
Importanti studi scientifici (Gender 3000 di Credit Suisse, Diversity Wins di Mc Kinsey e il nuovo rapporto della London Business School, SQW e FRC Board Diversity and Effectiveness nel FTSE 350) attestano l’esistenza di una correlazione certa tra board diversity e migliori prestazioni aziendali:una realtà che sta spingendo gli investitori ad accelerare su questo fronte.
“Le aziende – sottolinea Carlo Russo, manager ed esperto di corporate governance – appaiano sotto pressione: il conseguimento di un profilo di uguaglianza razziale e di equità sociale influenza lo sviluppo delle carriere, i compensi dei dirigenti, le assunzioni, l’inclusione ed il benessere dei dipendenti”.
L’opinione pubblica tende a percepire le aziende come poco inclini ad intensificare gli sforzi intorno a tematiche come gap di genere, disuguaglianze, riqualificazione della forza lavoro, cambiamenti climatici ed economici, anche se si tratta di questioni che, con sempre maggiore evidenza, influenzano la vita e le dinamiche aziendali.
Quanto più elevato è il tasso di diversità in un’organizzazione, tanto più affidabili sono i rapporti al suo interno.
Lo spunto di riflessione ulteriore proposto da Russo, dopo la buona notizia delle quote rosa nei CdA, riguarda lo spazio riservato, all’interno degli stessi, agli under 40: i dati al riguardo non sono soddisfacenti considerato che in più del 70% delle Pmi italiane non è presente neppure un giovane nel consiglio di amministrazione, ma soprattutto ove si consideri che negli ultimi anni -come ha rilevato qualche mese fa l’AidafItalian family business, l’associazione italiana delle aziende familiari- la presenza dei leader under 40 al vertice delle imprese ha subito un pesante ridimensionamento, passando dal 16,9% all’8,7%.
“Appare del tutto evidente – dice ancora Russo – che le aziende del nostro Paese hanno operato in direzione della parità di genere, raggiungendo dei risultati migliorabili ma, certamente, apprezzabili, ma si trovano, ora, nella condizione di dover affrontare tematiche di inclusione e di diversità più ampie, come, per l’appunto, quelle riguardanti età, orientamento sessuale, disabilità, origini nazionali e socioeconomiche, livelli di istruzione, cultura, esperienza lavorativa”.
Il manager conclude ponendo la questione, alla luce dei riscontri positivi registrati tra le aziende italiane sulle quote rosa nei CdA, della necessità di un nuovo ed urgente intervento normativo finalizzato alla valorizzazione dei talenti giovanili: “L’Italia – conclude – appare come un Paese che invecchia celermente, caratterizzato da un lento ricambio generazionale, e questo non può che produrre tangibili ricadute negative sulle capacità di innovazione e di competitività delle sue aziende”.