L’Italia è una penisola che si allunga nel Mediterraneo. La sua costa, isole comprese, si estende per oltre 8000 chilometri. È difficile ricavare dati precisi, ma secondo le stime più attendibili, gli stabilimenti balneari gestiti da privati occupano poco meno della metà della litoranea italiana. Si tratta di un’anomalia tutta italiana anche perché basta uscire dai confini per accorgersene. In Francia, ad esempio, almeno l’80% della riva deve rimanere libera da strutture, equipaggiamenti o installazioni. In Portogallo, le licenze durano al massimo dieci anni. In Grecia, la normativa nazionale prevede procedure di selezione che garantiscono imparzialità e trasparenza. Nell’ordinamento spagnolo, invece, le spiagge sono libere e quindi non possono essere oggetto di alcuna concessione.
È evidente che gli esempi virtuosi da imitare sarebbero dietro l’angolo e invece, il Governo sembra fare “orecchie da mercante”. Già, perché pigre gestioni familiari a regime monopolistico gestiscono e governano i beni comuni. La tutela delle spiagge si tramanda di padre in figlio, con modalità che potremmo definire ereditarie. In teoria i proprietari degli stabilimenti balneari sono illegittimi, le loro concessioni sono scadute e dovrebbero essere messe a gara ma, in pratica, è difficilissimo adeguare la realtà alle nuove leggi, e i Governi, uno dopo l’altro, non hanno fatto altro che prorogare.
L’Unione europea, con la direttiva Bolkestein, impone gare pubbliche per l’assegnazione delle concessioni sulle spiagge, ma, nonostante quanto indicato dal Governo italiano proprio in risposta alle contestazioni dell’Europa dovute alla non applicazione della direttiva in Italia, manca una mappatura formalmente corretta che tenga inoltre conto che oltre agli spazi dati in concessione siano necessarie aree libere, al fine di poter permettere l’accesso a un bene comune, il mare, anche da parte di quanti non possono, o vogliono, sostenere costi per poter trascorrere una giornata al mare.
In ben quattro regioni, ossia Toscana, Basilicata, Sicilia, Friuli-Venezia Giulia, non esiste nessuna norma che specifichi una percentuale minima di costa destinata alle spiagge libere o libere attrezzate, segno che anche le legislazione interna dovrebbe essere armonizzata. Il database della Regione Siciliana non è aggiornato, e spesso, per gli anni precedenti al 2022, i documenti non sono caricati. Il dato più evidente è quello dei canoni relativi alla concessione, che risultano essere molto bassi. A bassi canoni dovrebbe corrispondere a un basso costo per la fruizione dei servizi che la struttura offre ai suoi clienti ma, in realtà, troppo spesso non è così.
Un ombrellone e due lettini, sembra essere questo il servizio più richiesto da chi decide di trascorrere una giornata al mare in una spiaggia attrezzata. Su e giù per l’Italia, il prezzo medio di questo “pacchetto” varia molto da regione a regione, con differenze anche sostanziali. In base ai dati di Altroconsumo, il primato spetta alla Campania che risulta essere la più costosa poiché si parte da una base di 88 euro, una media che è influenzata dalla forte domanda nella Costiera amalfitana dove il costo può raggiungere picchi fino a 140 euro. Prezzi più bassi in Sicilia, con un costo medio pari a 35 euro e in Puglia, 34 euro.
Le spiagge più economiche in assoluto sono quelle delle regioni Calabria, Veneto e Abruzzo, in cui il prezzo di un ombrellone e due lettini oscilla tra 13 e 16 euro. In Sicilia, ma non solo, le concessioni balneari sono oramai diventate un affare di famiglia, con lidi in cui la gestione è tramandata di padre in figlio da diverse generazioni. La legge prevede che la durata fissata dalla legge sia di sei anni, ma è previsto un tacito rinnovo, motivo per cui chi ottiene il beneficio dal demanio lo mantiene più a lungo, pagando canoni relativamente bassi per aree molto ampie.
Ma quanto costa una concessione balneare in Sicilia? Il portale della Regione Sicilia continua a non essere aggiornato ma, sulla base dei dati relativi al 2021 il costo di una concessione demaniale in un’area destinata alla balneazione si aggira intorno a una cifra che può variare da 1,5 a 2,5 euro a metro quadro. Stiamo parlando di un costo relativo a un anno, non ad un canone mensile. Si tratta di un dato che emerge dall’elenco delle concessioni pubblicato sul Portale demanio marittimo della Regione siciliana. Un dato che, lo ricordiamo, al momento è pienamente legittimo, essendo sempre in attesa del bandimento delle gare imposto dall’Unione europea, e confermate da una recente sentenza della Corte di giustizia di Lussemburgo, da diverse sentenze del Consiglio di stato e dalla recente sentenza della Corte costituzionale.
La distanza minima tra gli ombrelloni, imposta per legge, prevede che ogni postazione dotata di ombrellone in Italia dovrebbe prevedere un’area di almeno 7,5 metri quadrati di spazio libero. Nello specifico, è previsto che la distanza tra le file di ombrelloni sia di circa 3 metri, mentre la distanza tra ombrelloni della medesima fila deve essere di 2,5 metri, cui si deve aggiungere il c.d. camminamento. Questo significa che possiamo considerare che un ombrellone e due lettini occupino un’area che, indicativamente, sia uno spazio variabile tra i 7,5 e 10 m2. Per esempio, si consideri uno stabilimento con 100 postazioni, dove ogni postazione, secondo quanto indicato, deve occupare 10 m2 di superficie, con una superficie totale della spiaggia pari 1.000 metri quadri, appunto 100 ombrelloni moltiplicati per 102. Si assuma anche che il prezzo medio per postazione sia pari a 35 euro al giorno, come nel caso della Sicilia. Si tenga anche conto che lo stabilimento sia aperto solo per tre mesi, ossia giugno, luglio e agosto, e che riesca ad avere un’occupazione media pari al 50% degli ombrelloni installati.
Le 50 postazioni frutterebbero, dunque, al gestore 161.000 euro all’anno, 50 ombrelloni per 35€ per 92 giorni. A fronte di questi ricavi, confronta la tabella in pagina, il gestore pagherebbe per la concessione della spiaggia 2,77961 € al metro quadro se l’area in cui si trova lo stabilimento è ad alta valenza turistica, la categoria A, e 1,3898 € al metro quadro se invece lo stabilimento è in un’area a bassa valenza turistica, la categoria B. Di conseguenza, il canone sarà pari a 2.779,61 € se lo stabilimento si trova in un’area di categoria A, ossia l’1,67% dei ricavi, mentre è di 2.698,75 €, per effetto della misura minima del canone, se si trova in un’area di categoria B, e cioè l’1,96% dei ricavi.
È evidente che il peso del canone sui ricavi ha un peso risibile in quanto, in poco più di un giorno e mezzo, una singola postazione occupata copre l’importo del canone annuo previsto per lo spazio che occupa. Non dimentichiamo che, oltre al canone, i concessionari hanno altri costi, come quello relativo al personale per la gestione della spiaggia e per il servizio di salvataggio, costi però che, nello spirito imprenditoriale che dovrebbe contraddistinguere gli imprenditori, possono essere assorbiti da altri servizi a pagamento che sono normalmente forniti su richiesta, come ad esempio cabine, noleggio imbarcazioni leggere e servizi di bar/ristorazione.
In Italia le spiagge fanno parte del demanio pubblico, ossia l’insieme di beni di proprietà dello Stato che non possono essere venduti o ceduti a privati. Rimane salva, però, la possibilità per lo Stato di concedere ai soggetti privati l’utilizzo di questi beni tramite una speciale concessione. Si tratta di una concessione assegnata con un bando di gara pubblico che permette al privato assegnatario di avere il bene per un certo periodo a fronte del pagamento di un canone, come in un contratto di affitto.
Una volta scaduto il termine della concessione, lo Stato dovrebbe indire un nuovo bando di gara per assegnare la stessa concessione. In pratica, però, in Italia negli anni le concessioni balneari sono state spesso prorogate, senza essere rimesse a gara una volta scaduto il termine. Oltre a un potenziale danno per i consumatori e per il bilancio dello Stato, ciò ha posto il Paese in diretta contrapposizione con l’Europa, in un contrasto ormai multi-annuale che non accenna a placarsi.
Per capire come sia evoluta, o meglio si sia involuta, la normativa che disciplina il tema delle concessioni balneari, è necessario fare un salto nel passato, in quel 1942 quando il “Codice della Navigazione” stabiliva che la concessione di un bene demaniale dovesse essere assegnato a chi garantiva il perseguimento dell’interesse pubblico e di una proficua utilizzazione del bene. Il regolamento d’attuazione, del 1952, ha precisato l’obbligo di pubblicazione delle domande di assegnazione sull’albo comunale di riferimento, per garantire il diritto di presentare opposizioni. Nonostante questo, su pressione dei beneficiari delle concessioni, nel 1992 venne introdotto nella normativa il c.d. “diritto di insistenza”, un diritto secondo cui i soggetti già titolari di concessioni balneari sarebbero stati preferiti, nell’ottenimento di nuove concessioni, ad altri soggetti senza concessioni a carico.
Lo stesso diritto disponeva poi il rinnovo automatico delle concessioni ogni sei anni, fatta eccezione per revoche per motivi collegati all’uso del mare o altri motivi di interesse pubblico. Si trattò, di fatto, dell’introduzione di una barriera all’entrata per nuovi potenziali detentori di concessioni e della concretizzazione di un vero e proprio monopolio per i detentori già presenti sul mercato.
Con l’evoluzione della legislazione comunitaria in tema di concorrenza, questo ha inevitabilmente condotto a un conflitto crescente con le istituzioni europee. Nel 2006 entrò in vigore la direttiva Europea n. 123, meglio nota come “direttiva Bolkestein”, dal nome del suo principale proponente. La direttiva, per stimolare la concorrenza e tutelare i consumatori, richiede che il rilascio di nuove concessioni e/o il rinnovo di quelle già esistenti seguano procedure pubbliche, trasparenti e imparziali, imponendo anche che tutti i potenziali candidati siano posti sullo stesso piano dalla normativa. La direttiva europea si pone dunque direttamente in contrasto con il diritto d’insistenza italiano, un conflitto che già nel 2009 condusse all’apertura di una prima procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia.
Nel 2010 il Governo italiano rispose abrogando il “diritto di insistenza” e il tacito rinnovo ma, per contro, prorogando a fine 2015 le concessioni in essere. Questa decisione non soddisfò la Commissione, che nel maggio 2010 mise nuovamente in mora l’Italia. La procedura si chiuse nel 2012 grazie a un ulteriore riordino della normativa italiana. Tuttavia, nello stesso anno, le concessioni già prorogate al 2015, furono ulteriormente prorogate fino al 2020. Questo riaprì il contenzioso con l’Europa e, nel 2016, si arrivò a una nuova procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia. Nonostante ciò, la legge di bilancio 2018 proroga le concessioni addirittura al 31 dicembre 2033.
Il 3 dicembre 2020 la Commissione europea inviò quindi una nuova lettera di messa in mora, che venne però ignorata dal governo italiano. In questo marasma di norme e contro-norme intervennero gli organi giurisdizionali italiani. Nel 2021, il Consiglio di Stato si pronunciò, imponendo che le concessioni in essere dovessero avere fine improrogabilmente entro il 31 dicembre 2023. Nel frattempo, nonostante la pronuncia del Consiglio di Stato, il governo Meloni decise comunque di prorogare le concessioni di un altro anno, fino al 31 dicembre 2024, provocando inevitabilmente un ulteriore intervento da parte del Consiglio di Stato che, nell’agosto 2023, precisò il dovere da parte di tutti gli organi dello Stato di disapplicare la proroga poiché in contrasto con la legge europea.
Il Governo, nel settembre 2023, presentò una relazione da cui risulta che le coste italiane sarebbero lunghe 11.172,79 chilometri, cioè ben 2.200 km in più di quanto calcolato dall’Istat (8.970 chilometri). Il tema è rilevante perché la direttiva Bolkestein presuppone la “scarsità delle risorse naturali” e non si applica se le risorse naturali (in questo caso, le spiagge) non sono, appunto, scarse. E infatti, in una nota del 5 ottobre 2023 diramata dalla Presidenza del consiglio, il tavolo concluse che l’attuale occupazione degli stabilimenti balneari è limitata a solo il 33% delle aree disponibili e, di conseguenza, essendo il 67% delle spiagge ancora libere, si ritiene la direttiva Bolkestein non applicabile. Questa conclusione viene però respinta dalla Commissione che, come ricordato sopra, prosegue nel suo percorso d’infrazione nei confronti dell’Italia.
Nell’anno in corso, come riportato più volte nelle nostre inchieste, il Consiglio di stato ha annullato l’ennesima proroga del Governo, stabilendo che le concessioni scadute a fine 2023 non sono più valide e che i Comuni devono rapidamente avviare nuove gare per assegnarle. Contrariamente a quanto di può pensare, dal punto di vista pratico, non è cambiato nulla perché, nonostante la scadenza delle concessioni, molti stabilimenti balneari potranno restare nello spazio assegnato anche con la concessione, di fatto, scaduta solo fino al 31 dicembre 2024 grazie a quella che è definita “proroga tecnica”, in caso di difficoltà nel completamento della gara, ma questo significa che i Comuni dovranno far partire l’iter necessario.
Questa proroga è stata concessa per permettere ai Comuni di completare le nuove gare di assegnazione. In una nota il Consiglio di Stato ha ribadito “la necessità, per i Comuni, di bandire immediatamente procedure di gara imparziali e trasparenti per l’assegnazione delle concessioni ormai scadute il 31 dicembre 2023”. Tuttavia, l’Italia rischia sanzioni dall’Ue se non procederà con la liberalizzazione del settore nell’interesse del mercato ma, e soprattutto, dei cittadini che sono costretti a subire un monopolio, un mercato peraltro basato su un bene pubblico in cui si ha un solo venditore di un prodotto senza sostituti o concorrenti.
Un sistema in cui il venditore controlla l’intera offerta e può quindi influenzare direttamente il prezzo, sfruttando la sua condizione per ottenere profitti superiori al totale dei profitti di un mercato in concorrenza, danneggiando pertanto i consumatori in modo ancora maggiore. Un sistema che, di conseguenza, produce una perdita sociale.
A fissare i prezzi delle concessioni demaniali, e quindi anche di quelle balneari, è la legge regionale 32/2020, che riprende i canoni stabiliti a livello nazionale, “aggiornati agli indici Istat maturati alla stessa data”. I prezzi pagati da chi vuole impiantare uno stabilimento balneare nell’Isola, dunque, non sono diversi da quelli praticati nelle altre regioni d’Italia. I costi di occupazione variano sulla base dell’area demaniale richiesta e delle attività che s’intende realizzare. Si tratta di una legge emanata dal Governo regionale Musumeci che reca, in calce, la forma degli allora assessori Falcone e Cordaro, rispettivamente assessori per le “Infrastrutture e la Mobilità” e per il “Territorio e Ambiente”.
La legge, il cui titolo è “Disposizioni in materia di demanio marittimo. Norme in materia di sostegno della Mobilità” nel comma 1 dell’art. 2, quello relativo al rilascio delle concessioni demaniali marittime, recita “Nelle more dell’approvazione dei Piani di utilizzo del demanio marittimo, Pudm, di cui all’articolo 4 della legge regionale 29 novembre 2005, n. 15 e successive modificazioni, è consentito il rilascio di nuove concessioni demaniali marittime, per una durata di sei anni, purché coerenti con le previsioni del piano di utilizzo già adottato in via preliminare dal Consiglio comunale ed in corso di approvazione. Qualora le nuove concessioni demaniali marittime siano in contrasto con i piani di utilizzo (Pudm) successivamente approvati, l’ente concedente assegna un termine, non inferiore a novanta giorni, entro cui il concessionario può inoltrare istanza al fine di rendere coerente la concessione demaniale marittima con il Pudm approvato. Se il concessionario non vi provvede nel termine assegnato ovvero se la concessione non risulti adeguabile alle previsioni del Pudm, la concessione è revocata”.
Qui nasce il primo però, ossia quello relativo all’approvazione dei Pudm. Sul sito del demanio marittimo della Regione Sicilia si legge che i comuni in cui è stato pre-adottato con delibera del Consiglio Comunale i Pudm, alla data del 10/10/2023, sono: Alì Terme, Augusta, Barcellona Pozzo di Gotto, Brolo, Campobello di Mazara, Capaci, Castelvetrano, Custonaci, Erice, Furci Siculo, Ispica, Itala, Lascari, Leni, Malfa, Menfi, Messina, Milazzo, Motta D’Affermo, Naso, Nizza di Sicilia, Noto, Patti, Petrosino, Piraino, Pollina, Priolo Gargallo, Reitano, Roccalumera, Rometta, San Vito Lo Capo, Santo Stefano di Camastra, Saponara, Spadafora, Terme Vigliatore, Torrenova, Trapani, Trappeto, Valderice, Villafranca Tirrena e Vittoria. Risulta subito evidente che, sulla base di questi dati mancano le grandi città dell’isola, nello specifico Palermo e Catania.
I Comuni siciliani che sia affacciano sul mare sono 68 sul Mar Tirreno, 30 sul Canale di Sicilia e 29 sul Mar Ionio, per un totale pari a 127 mentre, nell’elenco fornito dalla struttura regionale si indica che solo 41 hanno, almeno, pre-adottato il relativo Pudm.
Nel comma 1 dell’art. 4 della medesima legge, quello relativo al “Decentramento e semplificazione delle procedure amministrative”, si indica, inoltre che “i provvedimenti di autorizzazione e di concessione demaniale marittima sono adottati dal dirigente responsabile della struttura territoriale competente per territorio del Dipartimento regionale dell’ambiente”, norma che sembra in contrasto con l’art. 42 (Funzioni dei Comuni) del decreto legislativo 30 marzo 1999, n. 96 dal titolo “Intervento sostitutivo del Governo per la ripartizione di funzioni amministrative tra regioni ed enti locali a norma dell’articolo 4, comma 5, della L. 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni” che dispone infatti l’esercizio da parte dei Comuni delle funzioni previste dall’art. 105, comma 2, lett. f) e del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, tra le quali, in particolare, è previsto il “rilascio di concessioni di beni del demanio della navigazione interna, del demanio marittimo e di zone del mare territoriale per finalità diverse da quelle di approvvigionamento di fonti di energia” definendo così che l’autorità competente al rilascio delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico–ricreative è, nel caso di specie, il Comune al quale spetta dunque il compito di bandire le gare e formalizzare il termine della cessazione della concessione demaniale.