Prostituzione, lo Stato ipocrita non tutela né la salute né la sicurezza. E perde soldi - QdS

Prostituzione, lo Stato ipocrita non tutela né la salute né la sicurezza. E perde soldi

Elettra Vitale

Prostituzione, lo Stato ipocrita non tutela né la salute né la sicurezza. E perde soldi

venerdì 02 Dicembre 2022

In Italia un giro d’affari da 4 miliardi all’anno e 3 milioni di clienti. Montagne di denaro che spesso arricchiscono le organizzazioni criminali o che finiscono all’estero

ROMA – Quattro miliardi di euro di consumi finali, 90 mila lavoratrici stabili per tre milioni di clienti: sono i numeri del mercato della prostituzione in Italia, un settore che non ha visto una vera e propria “crisi” neanche nell’anno clou della pandemia. È quanto emerge dalle analisi del Codacons per il 2020, ultimo dato disponibile da cui emerge come neppure il Covid sia riuscito a fermare il mondo del sesso a pagamento. Numeri citati anche nell’ultimo Report Istat sull’economia sommersa, che ci parla di una riduzione dei consumi finali del settore rispetto all’anno precedente del 16%, neanche tantissimo se si considera il lockdown e le successive restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria.

Una fetta di mercato che, come accennato, coinvolge ben 90 mila operatrici stabili, di cui 9 mila sono minorenni e più della metà (il 55%) sono straniere che provengo dall’Est Europa o dall’Africa. Al totale vanno aggiunte altre 20 mila donne che si approcciano all’attività in modo del tutto occasionale, principalmente via web e per sopperire a necessità economiche momentanee o procurarsi denaro per viaggi o beni di lusso. D’altronde, le tariffe sono molto diversificate e vanno dalle decine di euro per una videochiamata erotica fino ai 500 euro per un appuntamento con escort “esclusive”.

Una storia lunga 64 anni

Ma cosa vuol dire oggi essere una prostituta in Italia? Per rispondere alla domanda bisogna tornare indietro al lontano 1958, quando venne approvata la legge n.75 del 20 febbraio “Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui”, meglio nota come “Legge Merlin” dal nome della prima firmataria del provvedimento, ovvero la senatrice Lina Merlin. La norma decretò la chiusura delle case atte al meretricio, meglio note come “case chiuse o bordelli” (che ai tempi in Italia erano circa 560), al fine di disincentivare qualsiasi gestione da parte dello Stato ma anche di privati sul settore, con l’obiettivo di contrastare il fenomeno di sfruttamento o favoreggiamento, ma di fatto contribuendo al proliferare di un mercato senza tutele, molto meno contrallibile, spesso in mano alla crimanità organizzata, italiana o straniera.

Intendiamoci: prostituirsi non è un reato in Italia poiché è possibile offrire servizi sessuali in cambio di denaro, senza essere fermati dalle Forze dell’Ordine o senza subire un qualsiasi procedimento penale, ma di fatto si tratta di una situazione, entro certi limiti, “tollerata” piuttosto che regolamentata come le altre professioni.

Legale… ma non troppo

In un Paese che oscilla tra una realtà sostanziale e un moralismo di facciata, i punti d’ombra di questo “modello” rimangono ancora tantissimi. Un chiarimento è arrivato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n.33160 del 31 luglio 2013, che ha definito con maggiore precisione i limiti dell’articolo 3 della legge Merlin, individuando come responsabile del reato di favoreggiamento “chiunque avendo la proprietà o l’amministrazione di una casa od altro locale, li conceda in locazione a scopo di esercizio di una casa di prostituzione” e, inoltre “chiunque, essendo proprietario, gerente o preposto a un albergo, casa mobiliata, pensione, spaccio di bevande, circolo, locale da ballo, o luogo di spettacolo, o loro annessi e dipendenze o qualunque locale aperto al pubblico od utilizzato dal pubblico, vi tollera abitualmente la presenza di una o più persone che, all’interno del locale stesso, si danno alla prostituzione”. Sempre nella stessa sentenza si chiarisce, peraltro, che la prostituta ha il diritto morale di essere pagata tramite Iva a carico del cliente.

Il punto è che, non potendo di fatto prendere in affito un locale da destinare all’esercizio della professione (il locatore si assumerebbe il rischio di essere accusato di favoreggiamento), i sex workers finiscono per essere costretti a operare in clandestinità. Vige insomma l’ipocrisia di Stato: una prostituta può aprire una partita Iva ma solo facendo riferimento a codici Ateco che hanno a che fare con servizi alla persona: non esiste, in buona sostanza, un codice del sex work. Da non dimenticare che per fatturare è necessario richiedere i dati del cliente a cui si rivolge la prestazione, cosa che per molti fruitori è ancora un tabù.

Nel frattempo, però, le strade sono gremite di donne le cui tutele sanitarie e legali sono ai minimi storici, spesso abbandonate agli incontrollati capricci dei clienti di turno. È di appena due settimane fa la sconfortante notizia delle tre prostitute uccise nel quartiere Prati a Roma, probabilmente dalla stessa mano di un presunto killer, per il quale le indagini sono ancora in corso.

Un turismo… in uscita

Un Paese, insomma, che nasconde la testa sotto la sabbia di fronte a una realtà che è sotto gli occhi di tutti, facendosi scappare introiti che finiscono all’estero. Non è un caso, infatti, che gli italiani siano tra i più attivi in Europa in tema di turismo sessuale: stando a una stima realizzata dall’Ecpat Italia, network internazionale contro la lotta allo sfruttamento sessuale dei minori, sono circa 80 mila i cittadini che ogni anno scelgono come meta paesi quale il Brasile, la Thailandia, il Sud est asiatico e l’Est Europa per concedersi una vacanza a sfondo sessuale.

Va detto che il turismo sessuale non risente in alcun modo della crisi economica che attraversa il nostro paese, anche perché spesso bastano poche ore e qualche centinaio di euro per varcare il confine e rivolgersi a destinazioni che sono ormai in voga tra i fruitori del settore. Tra le più vicine e famose vi è sicuramente la Svizzera, con clienti italiani che hanno tra i 18 e i 70 anni e nella maggior parte sono di origine lombarda. Qui, però, i servizi hanno dei prezzi piuttosto elevati perché le ragazze effettuano regolari test di controllo per Hiv, epatite e malattie sessualmente trasmissibili, all’incirca ogni 3 o 4 mesi. Nel Paese la prostituzione è consentita da lontano 1942, ma negli ultimi 10 anni ha visto una crescita esponenziale nella maggior parte dei 26 cantoni presenti, dove si trovano diversi bordelli che vedono all’opera circa 15 mila professioniste che pagano l’Iva sui propri servizi ed alcune di loro accettano la carta di credito. La maggior parte sono straniere provenienti dalle Americhe, dall’Europa centrale o dall’Estremo Oriente.

Discorso similare anche per la Germania che ha consentito alle circa 400 mila lucciole di praticare la libera professione già dal lontano 2002, con circa 3.500 bordelli e incassi record da 14,5 miliardi di euro l’anno, come evidenziato da un’inchiesta sul campo svolta dal Fatto Quotidiano nel 2016. Non si discostano di molto neppure l’Olanda, dove le case chiuse sono legali e le lavoratrici del sesso pagano regolarmente le tasse, con un fatturato che contribuisce considerevolmente alle entrate del Paese.

Legislazioni, dunque, che trovano applicazioni e forme diverse a seconda del territorio ma che evidenziano come, allo stesso tempo, la cattolica Italia sia ancora cieca di fronte a una realtà che muove in modo concreto e significativo persone ed economie.

Una legge da cambiare

A 64 anni dall’abolizione dei casini, però, il dibattito sulla questione è quanto mai acceso e aperto. Più volte partiti e coalizioni hanno presentato disegni di legge volti ad abolire o, almeno, ammorbidire la norma ma senza grandi risultati. Nel 2008 la ministra per le pari opportunità Mara Carfagna (Forza Italia-Popolo della Libertà) avanzò una linea proibizionista contro la prostituzione stradale, che però non arrivò mai all’iter parlamentare.

Nel 2013 è stato pubblicato il quesito referendario “Volete voi che sia abrogata interamente la legge 20 febbraio 1958, n. 75, intitolata Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui?” che, però, si bloccò perché non si raggiunse il numero di firme minimo necessario per la proposizione del referendum. E, ancora, nel 2014 è stata la volta della senatrice del Pd Maria Spilabotte che ha tentato di regolamentare il lavoro delle prostitute come libere professioniste, con pieni diritti e doveri dal punto di vista fiscale e previdenziale. Un ennesimo flop, però, che ottenne inizialmente anche il sostegno trasversale di diversi gruppi politici come Lega Nord, Movimento 5 Stelle e Forza Italia.

Ad inasprire le sanzioni legate a sfruttamento e favoreggiamento, ci ha provato la deputata Caterina Bini (Pd) nel 2016, propose pene severe ai danni dei clienti, secondo il modello proibizionista della Svezia dove ad essere punito non è chi offre il servizio ma chi ne fruisce. Il tutto per contrastare il fenomeno della tratte delle schiave prostitute più volte denunciato da diverse associazioni di categoria, tra cui Save The Children.

Stando ai dati in possesso dell’organizzazione, infatti, in Italia sono circa 1.660 le donne vittime di tratta accertate, di cui sempre più minorenni, con lo scopo di sfruttamento sessuale. In particolare nel 2018, tramite il programma “Via d’Uscita”; l’organizzazione ha intercettato 2.210 vittime di tratta minori e neomaggiorenni, il 58% in più rispetto all’anno prima e provenienti per lo più dalla Nigeria o dai Paesi dell’est europeo e dai Balcani.

Nel corso degli anni, poi, si sono succeduti diversi provvedimenti emanati dai vari comuni italiani, secondo il modello proibizionista, che hanno visto l’applivazione di ordinanze volte a elevare multe salate nei confronti dei clienti delle lucciole di strada, sebbene molte di esse siano state abbandonate su espressa richiesta dei prefetti di competenza poiché in contrasto con quanto previsto dalla legge Merlin. Stando alla norma, infatti, i Comuni non possono legiferare su temi etici e di sicurezza che sono di esclusiva competenza dello Stato.

Pia Covre, presidente del Comitato per i diritti delle prostitute

Intervista a Pia Covre, presidente del Comitato per i diritti delle prostitute (Cdcp)

“Il sex work è un lavoro come gli altri ma senza eguali diritti”

La strada per il reale riconoscimento della professione sessuale è più che mai in salita. Al limite tra lecito e illegale, ogni attività che preveda lo scambio di denaro o di beni in cambio di servizi e/o performance sessuali è ancora un tabù per Stato e società. Ne abbiamo discusso con Pia Covre, storica attivista e presidente del Comitato per i diritti civili delle prostitute (Cdcp), un’associazione no profit fondata da prostitute e non nel 1982, che nel 2004 ha ottenuto l’iscrizione nell’anagrafe regionale delle Onlus e si propone di fornire supporto alle persone che svolgono questa professione tramite attività culturali e azioni di sensibilizzazione politica e culturale sul tema.

Dottoressa Covre, come siamo messi in Italia in tema di sex work?
“Noi ci definiamo come sex worker perché ci sentiamo a tutti gli effetti delle lavoratrici sebbene l’attuale legislazione italiana non lo riconosca come tale. Se, infatti, lo Stato ci richiede di pagare le tasse e ci permette di aprire una partita Iva, questo è possibile solo nella dimensione di attività e servizi alla persona o massaggiatrice poiché non esiste una categoria professionale legata al sesso in cambio di denaro. Anche senza partita Iva si possono pagare le tasse e possono essere attivati tutti i controlli del caso ma vengono meno tutti i diritti connessi, come per qualsiasi altro lavoro regolare. Non è di fatto possibile organizzare il proprio lavoro in autonomia, assumere una domestica o collaboratrice che possa coadiuvare lo svolgimento delle proprie attività e, inoltre, chi affitta una casa a una professionista del sesso rischia di essere perseguito legalmente per favoreggiamento. In buona sostanza è come se questo tipo di attività continuasse ad essere perseguitata e, di conseguenza, viene meno l’interesse a svelarsi”.

E per quanto riguarda le tutele legali, lavorative e sanitarie?
“È vero che pagando le tasse è possibile accedere a tutte le tutele sanitarie del caso e godere dell’assistenza sanitaria come tutti gli altri cittadini. I riconoscimenti di lavoro usurante, infortuni, ecc., invece, non sono comunque riconosciuti o opportunamente commisurati a quanto guadagnato. Lo stesso dicasi per il trattamento previdenziale. Anche provvedendo tramite assicurazioni private, così come ho fatto io in passato mentre esercitavo la professione, viene riconosciuto un compenso per infortunio pari a quello di una casalinga. Lo stesso vale nel caso di furto, che richiede di denunciare l’accaduto alle autorità competenti, dovendo fornire tutte le spiegazioni di quanto si stava facendo al momento del reato. Da non dimenticare che oggi le persone che lavorano in questo settore sono per la maggior parte straniere e poter ottenere il pieno riconoscimento della propria attività lavorativa garantirebbe anche la possibilità di legalizzare la propria posizione nel paese, richiedendo regolare permesso di soggiorno. Questo potrebbe evitare che molte donne finiscano vittime di giri di racket o sfruttamento. In Italia è come se spesso si volessero chiudere gli occhi di fronte a problemi visibili a tutti, basti pensare alla questione cannabis”.

Qual è la vostra posizione sulla legge Merlin?
“Il nostro punto di vista sulla questione non riguarda la riapertura di case chiuse bensì la possibilità di organizzare in autonomia il proprio lavoro, in collaborazione con altre colleghe e in strutture private come, ad esempio, gli alberghi. Questo non è attualmente possibile, in quanto anche se due professioniste decidono di collaborare nella stessa casa per aiutarsi nella suddivisione delle spese o per ‘guardarsi le spalle a vicenda’ rischiano di incorrere in sanzioni o di essere denunciate per favoreggiamento, il che rende piuttosto complicato autodeterminare il nostro lavoro. Senza parlare delle difficoltà nel trovare una casa in affitto o prendere una camera in albergo per svolgere il proprio lavoro. Ogni sex worker deve avere la possibilità di essere imprenditore di se stesso e di decidere dove lavorare, con tutte le tutele lavorative che ne conseguono. Per fare questo è innanzitutto necessario partire dall’assunto che il lavoro sessuale è lavoro, al pari di tutti gli altri mestieri”.

Avvocato Maurizio Bruno, esperto di diritto civile

Parla l’avvocato Maurizio Bruno, esperto di diritto civile

“Va corrisposto un adeguato trattamento previdenziale”

ROMA – “La prostituzione tra adulti deve essere soggetta a tassazione, poiché è un’attività lecita”: è quanto dichiara la Corte suprema con la sentenza n.20528 dell’1 Ottobre 2010 che sembrava aprire uno spiraglio di dialogo sulla possibile legittimazione della prostituzione come attività lavorativa al pari di qualsiasi altra, dunque con inclusi gli stessi diritti e doveri. Abbiamo approfondito gli aspetti legali e normativi di una tematica che solleva ancora numerose perplessità con Maurizio Bruno, avvocato patrocinante in Cassazione ed esperto di diritto di famiglia e diritto civile, nonché titolare dell’omonimo studio legale con sede a Roma.

Avvocato Bruno, in Italia prostituirsi non è illegale e bisogna pagare le tasse ma di per sé il sex work non è adeguatamente regolamentato. Ci può aiutare a fare chiarezza?
“Le prostitute possono regolarmente chiedere di aprire una partita Iva iscrivendosi alla Camera di Commercio o Albi professionali, con il codice Ateco 96.09, vale a dire ‘attività di servizi per la persona’. Non esiste dunque una voce specifica relativa al sex work e bisogna ricorre a dei surrogati come attività di estetiste o lavoratrici dello spettacolo, in quanto non viene considerato un illecito ma, allo stesso tempo, non è opportunamente regolamentato e normato. Il Fisco richiede alle professioniste sia l’Irpef che l’Iva connessa con l’attività svolta, che sia abituale o saltuaria, tenendo conto che in molti casi la prostituzione non viene esercitata in modo continuativo, ma per sopperire ad esigenze specifiche o temporanee, il che non esime dall’obbligo tributario. L’Agenzia delle entrate e la Guardia di finanza, dunque, sono autorizzate ad attivare controlli e accertamenti fiscali. In generale, la sentenza della Cassazione del 24 luglio 2013 ha confermato la legittimità della sentenza dello stesso anno della Commissione tributaria regionale della Liguria, che aveva previsto un pesante accertamento fiscale nei confronti di una prostituta, precisando che i guadagni dovevano essere considerati a tutti gli effetti una fonte di reddito. Da qui la possibilità e il diritto del Fisco di accertare il versamento contributivo delle lavoratrici sia per quanto concerne l’Iva che per l’Irpef. In taluni casi l’accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate ha riguardato non solo l’evasione dell’Irpef, dell’Iva e dell’Irap, ma anche dei contributi Inps e qui apriamo un’altra tematica importante”.

Le prostitute hanno diritto alla pensione?
“La Cassazione ha stabilito l’obbligo di pagare le tasse e gli enti preposti possono effettuare tutti i controlli del caso ma il vero problema, appunto, è l’aspetto contributivo che necessita di essere normato. È già piuttosto complicato per le professioniste emettere fattura, dovendo richiedere al cliente di rilasciare i propri dati personali che spesso preferisce omettere per questioni di privacy. Ora si solleva una questione di carattere etico ma anche normativo. Se, come previsto dall’articolo 8 della Costituzione italiana ‘i lavoratori hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia, ecc’, lo stesso deve valere anche per le sex workers. Dovrebbe essere creato un sistema previdenziale ad hoc, simile a quello dei calciatori. Questo perché è molto difficile che una donna prosegua una professione così logorante per il proprio corpo per 30 o 40 anni. In sintesi, se lo Stato lo considera come lecita e non semplicemente come attività non vietata e se si pretendono le relative tasse, non si può impedire alla prostituta di versare i contributi per poter contare su un trattamento pensionistico al termine del periodo lavorativo. Risulta molto difficile che una donna riesca a raggiungere nel periodo di attività i contributi sufficienti ad ottenere una sufficiente pensione o ad accumulare abbastanza denaro per garantirsi un trattamento pensionistico privato”.

Come si muovono gli altri paesi in tal senso? Da chi potremmo prendere esempio?
“All’estero troviamo fondamentalmente tre linee normative sulla tematica. Vi sono paesi come la Russia, la Bielorussia, l’Albania e altri in cui la prostituzione è vietata costituzionalmente e in cui persegue un modello proibizionista in cui l’attività viene sottoposta a sanzioni penali sia per chi la pratica che per chi ne fruisce. Vi è poi un secondo modello, quale quello abolizionista, in cui il sex work non è vietato ma allo stesso tempo non è regolamentato, così come avviene in Italia. Infine il terzo abbiamo il terzo filone che troviamo in Svizzera, Paesi Bassi, Germania e Austria che si definisce regolamentarista. Il tutto, dunque, è opportunamente normato e sono previste tutte le tutele previdenziali del caso, è ammessa la presenza di luoghi predisposti alle attività in oggetto e la prescrizione di controlli sanitari obbligatori per prostitute e prostituti per la prevenzione e il contenimento delle malattie veneree. Va detto poi che vi sono alcuni paesi che rappresentano un’eccezione a sé, quali la Norvegia e la Danimarca che sono passate da una linea tollerante a un singolare estremo rigorista: ad essere punito non è chi fornisce il servizio bensì soltanto il cliente, in quanto si tratterebbe di una violenza dell’uomo nei confronti della donna che, a pensarci, sembra un paradosso. Tenuto conto del fatto che nella maggior parte dei casi un soggetto che decida di prostituirsi lo fa tendenzialmente per ragioni di grande necessità o difficoltà, emerge la necessità in paesi come il nostro di riconoscere effettivamente la prostituzione e le prestazioni erogate come un lavoro ordinario insistendosi per la legalizzazione del fenomeno, così come avviene nei paesi che ne hanno regolamentato ogni singolo aspetto e credo che questa sia una richiesta lecita che le professioniste del settore hanno il diritto di poter reclamare allo Stato”.

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