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La protezione sociale crea disoccupazione

La protezione sociale crea disoccupazione
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Investire meglio le risorse

Gli antichi dicevano: “In medio stat virtus”, vale a dire che ogni azione dev’essere proporzionata, ragionevole e possibilmente equilibrata, in modo che il risultato che si intende raggiungere sia adeguato alla questione che si affronta di volta in volta.
Perché questo incipit? Per parlarvi della protezione sociale che vi è nel nostro Paese nei confronti dei/delle cittadini/e, forse per intensità ed estensione prima nel mondo.
Com’è noto, in Paesi più sviluppati del nostro e con più antiche democrazie, come gli Stati Uniti (1787) o la Svizzera (1848), non vi è una protezione sociale paragonabile a quella italiana.

In primo luogo ci riferiamo al Servizio sanitario nazionale (istituito con legge del 1978). Se da un canto è vero che esso rispetta il criterio di uguaglianza all’articolo 3 della Costituzione, è anche vero che la stessa Carta prevede che le imposte debbano essere progressive in funzione dei redditi, secondo l’articolo 53.
Perché vi scriviamo questa osservazione? Poiché non è equo fornire lo stesso servizio a ricchi e a poveri.

Secondo un principio di equità, infatti, i meno abbienti, con Isee basso e con redditi non elevati, hanno ovviamente diritto alle cure sanitarie, ma via via che i redditi salgono e superano le centinaia di migliaia di euro o addirittura i milioni di euro all’anno, i percettori di tali somme non dovrebbero godere della stessa entità dei servizi sanitari, ma ci dovrebbe essere una differenziazione in relazione ai redditi dei/delle cittadini/e. Dunque, si tratta di un eccesso di protezione sociale.

Veniamo ad altra specie: gli assegni che vengono distribuiti a destra e a manca per assistenza, per disoccupazione, per assenza di lavoro e altre fattispecie. Ebbene, secondo vari istituti europei più si estende questo tipo di protezione sociale, più si disincentiva la gente a cercare lavoro o a lavorare. Nonostante il sussidio non sia elevato, l’indolenza prende tanta gente che non percepisce l’urgenza o il bisogno imminente di lavorare. Si tratta di un meccanismo psicologico del tutto naturale, in cui si pensa più a se stessi che alla Collettività.

Carlo Cottarelli, quando fu incaricato dall’allora presidente del Consiglio, Enrico Letta, di redigere un rapporto per ridimensionare la spesa pubblica, chiamato “Spending Review”, arrivò alla conclusione che ben 35 miliardi di euro potevano essere risparmiati!

Quando gli esperti del presidente del Consiglio presero in esame tale rapporto – che comportava tagli a destra e a manca – consigliarono al premier di metterlo nel cassetto, cosa che fece prontamente, con la conclusione che da allora ogni anno vengono sperperati oltre 35 miliardi di euro che si potrebbero risparmiare senza danneggiare nessuno, ma solo togliendo privilegi a questa o a quella categoria.
Il bilancio dello Stato di ogni anno, che si aggira intorno a 1.300 miliardi, potrebbe essere reso più efficiente se depurato da questi sperperi, non per spendere di meno, ma per spendere meglio, cioè destinando le risorse alle infrastrutture e allo sviluppo del territorio.

Si obbietterà che già vi sono decine e decine di miliardi destinati alle infrastrutture che non vengono spesi. Qui casca l’asino, come abbiamo avuto modo di scrivere tante volte: non vengono spesi perché la Pubblica amministrazione, che è il motore del Paese, è inceppata, inefficiente e disorganizzata, in quanto al suo interno non sono adottati i principi di merito e produttività. Cosicché le cose vanno come debbono andare, le spese sono fuori controllo, nessuno interviene per razionalizzare ed efficientare l’organizzazione e si finisce col depauperare decine e decine di miliardi che invece dovrebbero essere investiti.

Della indicata disorganizzazione nessuno paga le conseguenze, perché tanto anche gli/le incapaci, gli/le impreparati/e e coloro che non hanno qualifiche vengono indicati a posti di vertice e di responsabilità delle diverse branche della Pa.

Così è se vi pare, diceva il Nobel, Luigi Pirandello. Mai frase più appropriata alla materia in esame.