Editoriale

Pubblico impiego violata la Costituzione

Durante questa campagna elettorale, per la verità abbastanza soft, alcuni candidati scriteriati hanno detto e continuano a dire falsità. Per esempio, che occorre aumentare la spesa pubblica, quella corrente (denominata cattiva), per – dicono – migliorare i servizi.
Chi afferma queste cose o è incompetente oppure in malafede, perché il buon funzionamento delle strutture pubbliche in tutti i settori non dipende solo dalla dotazione finanziaria, che certo è necessaria, ma e soprattutto dalla capacità del ceto dirigenziale di fare funzionare i servizi e i dipendenti pubblici, che li devono garantire con efficacia e produttività, in modo che emerga il merito, misurato dai risultati, i quali non mentono mai.

Il ceto impiegatizio e quello dirigenziale della Pubblica amministrazione non è però selezionato in base a regole obiettive, contenute nei concorsi pubblici previsti dall’articolo 97 della Costituzione. Ormai tutti i partiti, quando vanno al Governo, preferiscono alimentare l’ingresso surrettizio nel mondo dei precari, i quali poi ovviamente chiedono di essere stabilizzati senza alcun merito.

Per cui, oggi si verifica un’anomalia. Per esempio, nell’ambito degli attuali ottocentomila insegnanti, meno di un terzo di essi è entrato per concorso pubblico, con la conseguenza che la qualità professionale e morale degli stessi si è fortemente abbassata e, come ulteriore conseguenza, i giovani ricevono un insegnamento di qualità inferiore.

Come è noto, nel nostro Paese vige la legge secondo la quale il ceto istituzionale indirizza l’attività della Pubblica amministrazione e ne controlla i risultati; poi è essa che deve preoccuparsi di produrli ed è quindi valutata in base a ciò che consegue. Però, nella realtà dei fatti, questo sano meccanismo non funziona per alcune anomalie.
La prima è che gli obiettivi, come ha sostenuto più volte la Corte dei Conti, non sono fissati da organi esterni e, quindi, imparziali e oggettivi, bensì dagli stessi dirigenti, i quali, per conseguenza, percepiscono premi che non dovrebbero ricevere in quanto raggiungono traguardi facili, addirittura risibili.
Tutto questo danneggia fortemente i/le cittadini/e, soprattutto quelli/e che pagano le imposte, perché non ricevono servizi pubblici di qualità.

Vogliamo citarvi un’anomalia in quest’ambito. Il Decreto legge n. 80 del 9 giugno 2021 ha previsto di aumentare del venti per cento il numero dei pubblici dipendenti e dirigenti che possono entrare nell’organico dei gabinetti della Presidenza del Consiglio. Ora, in questi uffici e nei Ministeri vi sono trecentocinquanta posti per la prima fascia e duemilaseicento per la seconda, il che significa che quell’organico viene incrementato di cinque o seicento soggetti che non sono passati per la selezione del concorso, ma nominati su base fiduciaria dalla Presidenza del Consiglio e dai titolari dei vari dicasteri.

Insomma, viene premiata la fedeltà e non la competenza, con la conseguenza che gli indicati soggetti non agiscono nell’interesse dei/delle cittadini/e, ma per quello dei loro datori di lavoro, cioé di coloro che li hanno nominati.
Si tratta di una discrasia notevole e poco conosciuta, che indica l’andazzo deleterio e discendente della Pubblica amministrazione, inceppata.

Battiamo e ribattiamo sul malfunzionamento della Pubblica amministrazione nazionale, regionale, comunale e dei diversi servizi perché un Paese come il nostro – che ha un sistema di imprese di alta qualità, nelle quali spiccano i cinque milioni di piccole e medie – essa costituisce una palla al piede anziché funzionare da spinta e da moltiplicatore dell’economia.

Insomma, in Italia ci sono i cavalli che tirano, cioè le imprese, e tanti altri soggetti che stanno comodamente sul carro e che si fanno trasportare, costituendo un peso e non un aiuto.
Su questo versante, tutti i Governi di questi trent’anni hanno fatto poco o niente; stonano i Ministri che avrebbero dovuto riformare la Pubblica amministrazione sulla base dei criteri di merito, produttività e obiettività, ma che non hanno mosso un dito.
Diceva Pericle (495 a.C.- 429 a.C.): “L’accesso alle cariche pubbliche sia consentito solo per merito”. Nessuno finora l’ha ascoltato.