Quei tanti punti ancora oscuri del delitto Pasolini - QdS

Quei tanti punti ancora oscuri del delitto Pasolini

redazione

Quei tanti punti ancora oscuri del delitto Pasolini

Mariella Palermo  |
giovedì 03 Novembre 2022

Intervista esclusiva alla giornalista Antonella Amendola, fra i primi ad arrivare, ormai 47 anni fa, sul luogo dell’omicidio

ROMA – “Quella notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975 sulla spiaggio dell’Idroscalo di Ostia, Pier Paolo Pasolini fu vittima di un’imboscata finalizzata al suo deliberato assassinio” dice in esclusiva al Quotidiano di Sicilia la giornalista Antonella Amendola, accorsa quella tragica mattina sul luogo della mattanza dello scrittore mentre il suo corpo martoriato era ancora a terra irriconoscibile. A 47 anni dalla morte dell’autore di “Petrolio” e nell’anno del centesimo anniversario della sua nascita – avvenuta il 5 marzo del 1922 nel quartiere Santo Stefano di Bologna – per la prima volta, la nota giornalista – figlia di Pietro, nipote di Giorgio e Giovanni Amendola, antifascista liberale morto nel 1926 per i postumi dell’aggressione di una squadraccia di camice nere – racconta i tragici fatti legati alla morte dello scrittore cinquantatreenne, il contesto in cui maturò l’assassinio e il Pasolini privato con tutti i suoi chiaroscuri.

Antonella Amendola

“Pier Paolo – racconta Amendola – mi fu presentato da amici comuni, Alberto Moravia e Dacia Maraini: i due scrittori, marito e moglie, erano legati a lui da un profondo affetto, si può dire che erano i suoi migliori amici, con lui avevano fatto anche viaggi memorabili in Africa e in India riportati in diversi celebri scritti. Io all’epoca ero redattrice alla Cultura de Il Mondo di Antonio Ghirelli con cui Pasolini collaborava: aveva una rubrica che si chiamava “La pedagogia di Gennariello” dove si rivolgeva ai giovani cercando di spiegare loro gli effetti negativi del consumismo”.

Tornando al 2 novembre del 1975, come apprese dell’omicidio?
“Quella tragica mattina mi chiamò Lamberto Furno, giornalista vaticanista a La Stampa di Torino e mi disse che era stato trovato all’idroscalo di Ostia un corpo maciullato che secondo le prime indiscrezioni poteva essere quello di Pasolini. Io chiamai subito il direttore del mio giornale, Ghirelli, che mi disse di correre prima all’idroscalo per verificare che il corpo fosse effettivamente di Pasolini poi di andare casa dello scrittore per ritirare l’ultimo testo manoscritto della sua rubrica pronto per la pubblicazione”.

Cosa vide precisamente sul luogo del delitto all’Idroscalo?
“Appena arrivata mi colpì il gran numero di persone che si muoveva senza nessuna cautela attorno a quello che sembrava un corpo, inspiegabilmente la scena del crimine non era stata isolata. Qualche minuto dopo arrivò Alberto Moravia insieme al regista Bernardo Bertolucci, sconvolti dall’assassinio per il grande affetto che li legava allo scrittore. Bertolucci disse subito che per lui si trattava di un agguato, escludendo la possibile matrice di un pestaggio finito male nato da una delle relazioni omosessuali di Pasolini con quelli che all’epoca venivano chiamati ragazzi di vita, giovani e giovanissimi che vivevano di espedienti quali piccoli furti e prostituzione occasionale, ipotesi per la quale invece propendeva Moravia che era ben consapevole di quanto a volte Pasolini sfidasse la sorte in queste avventure notturne in ambienti frequentati da poco di buono”.

Quello stesso giorno, il 2 novembre, venne arrestato Pino Pelosi, detto “la rana”, un balordo e ragazzo di vita 17 enne, che nel corso dell’interrogatorio confessò l’omicidio. Il 2 febbraio 1976 iniziò il processo di primo grado che si concluse quattro mesi dopo con una sentenza di condanna a dieci anni per Pelosi. Il presidente del Tribunale dei minori, Alfredo Carlo Moro (fratello di Aldo) scrisse nella sentenza che in modo inequivocabile “quella notte all’Idroscalo Pelosi non era solo” e aveva dunque agito in concorso con altri, rimasti ignoti. Nel successivo grado di giudizio però Pelosi venne confermato colpevole, ma non c’era più il concorso con ignoti e Oriana Fallaci, con l’immediatezza che la contraddistingueva, in quel frangente parlò per prima di aggressione fascista. Qual è l’idea che si è fatta lei, anche alla luce delle numerose inchieste giornalistiche che si sono susseguite in 47 anni?
“La vicenda da subito ha dato a molti la sensazione che vi fossero dei punti oscuri: intanto Pasolini era una persona generosa, mite, mai aggressiva o violenta, soprattutto con i più deboli, quindi, la prima versione dei fatti raccontata da Pelosi, ovvero che Pasolini voleva violentarlo e che per difendersi da suoi assalti lo avrebbe massacrato di botte per poi fuggire con l’auto dello scrittore investendolo e causandone la morte, ha generato molti dubbi in chi lo conosceva bene. Intanto è inconcepibile che Pelosi, un ragazzetto diciassettenne di fragile costituzione, abbia potuto massacrare di botte Pasolini, che invece aveva una corporatura da atleta, riportando solo un lieve graffio alla fronte e una macchiolina di sangue sul polsino della camicia. Inoltre, dalle analisi sulla dinamica dei fatti che si poteva dedurre dai rilievi sul posto fatti dalle Forze dell’ordine e dall’autopsia sul corpo dello scrittore, gli avvocati della famiglia Pasolini, Guido Calvi e Nino Marazzita, avevano subito ipotizzato che a ucciderlo fosse stato il violento pestaggio di più persone adulte e che le numerose tracce di ruote di automobili rilevate sul terreno non fossero compatibili con la versione di Pelosi”.

Pelosi che fra l’altro nel 2005, intervistato durante la trasmissione televisiva “Ombre sul giallo” dalla conduttrice Franca Leosini, cambiò versione…
“Si, Pelosi disse ‘Non sono io l’assassino di Pasolini’, e rivelò: “Mentre eravamo appartati in auto ci piombarono addosso tre energumeni che, gridando insulti in dialetto meridionale, aggredirono Pierpaolo lasciandolo esanime per terra”. Consideri poi che dieci anni prima, nel 1995, un ex appuntato dei carabinieri, Renzo Sansone, che al tempo si era infiltrato in un giro di balordi delle borgate romane, aveva dichiarato che alla mattanza, conseguenza di una rapina finita male, avevano partecipato oltre a Pelosi tre minori: Giuseppe Mastini, detto ‘Johnny lo zingaro’, di 15 anni, e i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, detti ‘Er braciola’ ed ‘Er bracioletta’ di 13 e 14 anni”.

All’epoca si parlò anche di una matrice politica dell’assassinio, probabile frutto di una spedizione punitiva commissionata da ambienti di estrema destra…
“Certamente fece pensare il fatto che dopo poche ore dall’arresto di Pelosi si apprese che il suo avvocato difensore era il noto penalista Rocco Mangia, riferimento dell’ambiente fascista romano. In più Pasolini aveva subito diversi attacchi da quella parte politica nel corso della sua carriera, ma soprattutto dopo il suo film ‘Salò’ in cui mostrava il nesso tra fascismo ed esaltazione del mito della morte, del sesso brutale e violento, mettendo in ridicolo la cultura valoriale fascista”.

Si è molto discusso anche del fatto che in “Petrolio”, ultima opera di Pasolini – pubblicato postumo e incompleto nel 1992 – ci sia la chiave della sua morte. Di un capitolo mancante ci è arrivato solo il titolo, “Lampi sull’Eni”: si è ipotizzato che in quelle pagine mai arrivate a noi sarebbero stati riportati nuovi particolari e documenti a sostegno della teoria pasoliniana sull’omicidio di Enrico Mattei su commissione delle “multinazionali” (all’epoca parola pressoché sconosciuta) del petrolio…

“Si, negli anni si è parlato anche di questo, tutte congetture senza alcun riscontro. Personalmente sono convinta che Pino Pelosi sia stato l’esca che doveva servire a suoi giovanissimi amici per rapinarlo e su questa storia di ragazzi si sarebbero inseriti degli adulti intervenuti sul luogo dell’assassinio con una seconda vettura che, dopo aver allontanato i ragazzini, avrebbero eseguito il pestaggio mortale. Del resto, le tracce di Dna estratte da macchie di sangue trovate nella macchina dello scrittore, poi andata inspiegabilmente distrutta, non erano né di Pelosi né dei suoi compari. Pelosi, morto nel 2017, è stato l’unico ad aver pagato per un delitto che non aveva commesso”.

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