La scelta del materiale lapideo segno di aspettative di stabilità che non trovarono conferma. Seconda parte del nostro racconto alla scoperta della storia degli Ebrei nell’ennese
AGIRA (EN) – Riprendiamo, in questa seconda parte della nostra ricostruzione, il discorso lasciato in sospeso dopo l’articolo pubblicato venerdì scorso (clicca qui per leggerlo).
L’Aron di Agira si trovava all’interno della sinagoga, incastonato nella parete rivolta a mezzogiorno, dove ancora oggi, sui ruderi, è visibile l’impronta nella zona in cui era collocato. Dopo l’espulsione degli Ebrei, così come era comune in quell’epoca, il tempio venne trasformato in chiesa cristiana, chiamata chiesa di Santa Croce, poi dopo anni divenne, infine, un semplice oratorio, che con il deteriorarsi delle strutture, in ultimo, venne definitivamente abbandonato.
Oggi in cima all’irta salita della viuzza che conduce ai ruderi, dietro allo sbarramento costituito un pesante cancello in ferro, restano, nel più totale abbandono, i resti dei muri perimetrali della sinagoga, sormontati da una rigogliosa vegetazione spontanea. Il pavimento è coperto dall’erba alta, che preclude la vista di quel che resta della antica pavimentazione. Purtroppo, né presso i ruderi della sinagoga, né nella vicina chiesa del Santissimo Salvatore, dove è custodito l’Aron, è possibile fruire dell’accompagnamento alla visita da parte di guide turistiche professioniste.
Chi scrive ha però assunto il bene di incontrare sui luoghi la presenza colta e appassionata del professor Giovanni Senfett, il quale ha saputo suggerire precisi spunti di riflessione. In primo luogo l’osservazione dell’area sinagogale e in modo particolare della parete di mezzogiorno, rigorosamente orientata verso Gerusalemme, in cui l’Aron era fissato, evidenziano che quest’ultimo era di dimensioni eccessive e sovrabbondanti, rispetto ai luoghi che lo accoglievano. Questa caratteristica potrebbe suggerire l’idea che quella comunità, inconsapevole della catastrofe che solo pochi decenni dopo si sarebbe abbattuto su di loro, con la espulsione, voluta dai reali di Spagna, aveva creato un Aron di una certa generosa consistenza, che ben si sarebbe inserito in caso di ampliamento dei locali della piccola sinagoga.
Ancor più, l’inusuale utilizzo di materiale lapideo, anziché del legno cosi come era d’uso dappertutto, anche per la maggiore trasportabilità del sacro contenitore, è quanto mai rivelatore della volontà di non voler andar via da quella terra. Tutto ciò troverebbe conferma nella data della realizzazione dell’Aron, ricavabile da una incisione esistente sul medesimo, che risulta essere, secondo il calendario ebraico l’anno 5214, e risponde al 1454. Quello è il periodo storico in cui la convivenza tra ebrei e cristiani raggiunge in Agira livelli ancor più che accettabili. Sono gli anni in cui il re Martino I ed il duca di Montblanc garantirono alle comunità ebraiche della Sicilia una rinnovata autonomia giuridica, disponendo la loro riunione sotto un’unica autorità amministrativa chiamata Magister Iudaeorum e confermando la loro protezione, in quanto gli Ebrei venivano riconosciuti servi della Camera Regia.
Agli Ebrei di Agira risultò facile illudersi, e pensare di aver trovato una nuova patria. In questo contesto storico un Aron in pietra monumentale è il segno più tangibile di queste aspettative di stanzialità, non suscettibile di cambiamenti e ulteriori migrazioni. Ma così non è stato.
Concludiamo qui la seconda parte di questo nostro percorso nella storia di Agira, dando appuntamento ai nostri lettori alla prossima, e ultima, puntata del nostro racconto.