Si sentono tante voci prive di fondamento che parlano del lavoro in quanto tale. Dobbiamo ricordare che esso è un mezzo e non un fine; il fine del lavoro è il raggiungimento degli obiettivi, il che significa soddisfazione personale e utilità sociale.
Tali obiettivi devono essere prefissati, ragionevoli e ottimisti; diciamo ottimisti poiché è del tutto insensato fissare degli obiettivi a un livello basso, quindi raggiungibile, ma che sostanzialmente non concludono quasi nulla, cioè non cambiano nulla.
Sul tema, il dibattito è aperto dal dopoguerra. Firmata la resa, tutti e tutte gli italiani hanno cominciato a lavorare alacremente per ricostruire il Paese, non solo sul piano urbanistico (palazzi, strade, ponti, eccetera), ma soprattutto sul piano economico, con la nascita di piccole imprese e la ristrutturazione di quelle grandi, allora assistite quasi esclusivamente dalle tre Bin (Banche di interesse nazionale): Credito italiano, Banco di Roma e Banca commerciale italiana.
Non vi era riguardo per le ore di lavoro poiché tutti volevano che il nostro Paese si sviluppasse e diventasse democratico.
Alla base di questo modo di lavorare vi era il convincimento che si dovessero conseguire i risultati, senza avere alcun riferimento al numero di ore lavorative per giorno, settimana o mese.
Al centro di questo modo di pensare vi era il merito, cioè la capacità di sviluppare le attività senza risparmiarsi. Nacquero allora gruppi che poi sono diventati molto grandi e che hanno occupato decine di migliaia di dipendenti.
Il merito, dunque, era al centro dell’attività di ogni italiano per conseguire degli obiettivi comuni.
Poi però arrivò la stagione cosiddetta del “sessantotto”, in cui dissennati italiani, fra sindacalisti e componenti del sistema istituzionale, cominciarono a parlare del maledetto “sei o diciotto politico”, cioè il conseguimento di un traguardo senza merito. Da lì cominciò il declino del nostro Paese, che si concluse con il “fallimento” dell’Italia, sancito dal Governo Amato con il prelievo dai conti correnti bancari di ogni cittadino e impresa del famoso 0,6 per cento.
L’avvento di Berlusconi del 1994 sembrava dovesse cambiare questo modo di pensare, ma in effetti non cambiò nulla: l’Italia continuò a declinare, tanto che dal 1983 al 2003 il Pil è aumentato di circa il cinque per cento, mentre dal 2003 al 2023 è stato piatto, intorno allo zero.
Questo declino costante si deve attribuire a molti fattori, fra cui la diminuzione della qualità del ceto istituzionale e l’avvio di una disfunzione della Pubblica amministrazione, diventata cronica.
Ricordiamo ancora i tempi del dopoguerra, quando dirigenti e dipendenti pubblici lavoravano senza risparmiarsi, anche fuori orario e anche senza straordinario, unicamente perché avevano presente il compimento del loro dovere.
Si può osservare che quanto precede non corrisponde alla qualità della vita che ognuno di noi vorrebbe. Non si può che essere d’accordo. Tuttavia, “in medio stat virtus”: da una situazione gravosa per chi lavorava nel pubblico e privato, siamo passati a quella opposta in cui chi lavora lo fa per far trascorrere il tempo e non per conseguire risultati.
Con ciò ritorniamo a bomba all’inizio di questo editoriale e cioè che non si può lavorare per far trascorre il tempo, per cui non si può essere d’accordo neanche col famoso film “Vivere per vivere”, di Claude Lelouch. La vita è sacra e va spesa bene. Il lavoro è sacro e va finalizzato al raggiungimento di obiettivi.
È proprio la comparazione fra risultati e obiettivi che misura il merito di chi ha lavorato e sono i risultati che generano la ricchezza. Con il merito le cose andrebbero meglio e non ci troveremmo con un Paese arretrato sul piano dello sviluppo territoriale, della sostenibilità ambientale, culturalmente, tecnologicamente e così via.
Chi ha la responsabilità di guidare il Paese verso un miglioramento netto di questo stato di cose? Ovviamente il ceto istituzionale, a prescindere dall’espressione partitocratica in quanto all’interno dei partiti vi sono persone per bene e per male, persone capaci e incapaci, persone colte e ignoranti.

