Catania, Siracusa e Ragusa sono le province siciliane dove il rischio alluvionale è più elevato. Lo attestano i dati dell’ultima relazione approvata dalla Regione siciliana, che ha aggiornato la mappa delle aree a rischio alluvioni. Il documento, predisposto dall’Autorità di bacino del distretto idrografico di Sicilia e trasmesso alla Commissione europea, rientra nel terzo ciclo di gestione della direttiva europea 2007/60/CE e ha l’obiettivo di prevenire i danni da eventi meteorologici estremi sempre più frequenti.
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Il nuovo studio ha individuato le cosiddette “Aree a potenziale rischio significativo di alluvione”: si tratta di porzioni di territorio dove la combinazione tra eventi meteo violenti, presenza di corsi d’acqua e urbanizzazione rende elevato il rischio per la popolazione, le attività economiche e le infrastrutture. Tra i bacini più attenzionati ci sono quelli del fiume Simeto, che attraversa il territorio della provincia di Catania; quelli dell’Ippari e dell’Irminio nel Ragusano e dell’Anapo, nel Siracusano.
Particolare attenzione al fiume Simeto, all’Ippari, all’Irminio e all’Anapo
In queste zone, negli ultimi anni, si sono registrate esondazioni, frane, allagamenti urbani e ingenti danni a strade, abitazioni e coltivazioni. Due episodi, in particolare, hanno spinto le autorità ad aggiornare le valutazioni. Il primo risale a febbraio 2023, quando un ciclone mediterraneo, battezzato “Helios”, ha investito l’isola con piogge torrenziali e venti di burrasca. In appena 48 ore sono caduti oltre 400 millimetri di pioggia in alcune aree della Sicilia orientale.
Fiumi e torrenti hanno rotto gli argini, intere strade si sono trasformate in fiumi di fango, e molte famiglie sono rimaste isolate o senza elettricità. L’altro evento chiave è quello di novembre 2024, quando tra l’11 e il 13 del mese forti piogge hanno colpito in particolare la fascia ionica del Catanese, in un’area già provata dalle precedenti perturbazioni.
A novembre 2024 a Giarre in tre giorni sono caduti 635 mm di pioggia
A Giarre si sono registrati 635 mm di pioggia, un dato che da solo racconta l’eccezionalità del fenomeno. Torrenti esondati, allagamenti in centro abitato e frane lungo le strade hanno messo in ginocchio l’intera area. In totale, tra il 2018 e il 2024, la Regione ha censito 30 eventi significativi legati al rischio idraulico. Una frequenza che, unita all’intensità, preoccupa non solo gli esperti ma anche gli amministratori locali.
La Sicilia è un territorio naturalmente esposto al rischio idrogeologico. Il 62% del suo territorio è collinare, il 24% montuoso, e solo il 14% pianeggiante. Le coste, che si estendono per oltre 1.600 km, ospitano la maggior parte della popolazione e delle attività economiche. Ma sono anche tra le più vulnerabili: più di 400 km di litorale presentano fenomeni di erosione, aggravati dall’urbanizzazione selvaggia e dalla distruzione delle dune costiere.
Lo sviluppo urbano siciliano si è concentrato alla foce dei fiumi o vicino ai torrenti
Le città principali, come Catania, Palermo, Messina, Siracusa e Trapani, sono spesso sorte alla foce di fiumi o in prossimità di torrenti. Col tempo, l’espansione edilizia ha cancellato gli spazi naturali di deflusso delle acque, aggravando il rischio alluvionale. Anche le zone turistiche, come Cefalù, Taormina e le Eolie, non sono immuni: strutture portuali, strade e insediamenti sono esposti a mareggiate e frane. I fiumi siciliani, spesso a regime torrentizio, sono soggetti a improvvisi innalzamenti di portata.
Il Simeto, ad esempio, è il più grande fiume dell’isola per estensione del bacino, che copre circa 400.000 ettari e coinvolge 29 comuni. Ma anche il Platani, l’Imera meridionale, il Belice e il Gela rappresentano un rischio concreto per vaste porzioni del territorio. Secondo gli esperti, il progressivo consumo di suolo, legato alla cementificazione e alla crescita urbana, sta peggiorando la situazione.
L’urbanizzazione ha cancellato lo spazio di deflusso naturale delle acque
Le zone che un tempo fungevano da “valvole di sfogo” per l’acqua piovana, come le pianure agricole e le aree non edificate, sono sempre più rare. E senza spazi liberi, l’acqua non trova vie naturali di deflusso, finendo per travolgere le strade e le case. La relazione richiama anche l’importanza di adottare una visione integrata, che tenga conto delle trasformazioni ambientali, sociali ed economiche del territorio. Non si tratta solo di argini o canali, ma di una nuova cultura della prevenzione.
Nel prossimo futuro, sarà essenziale affiancare alle azioni tecniche una maggiore consapevolezza collettiva. Educare le comunità locali alla prevenzione, evitare nuove costruzioni in aree a rischio e recuperare gli spazi naturali potrebbe fare la differenza. Perché, come dimostrano gli ultimi eventi estremi, non basta più intervenire dopo. Serve agire prima.

