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L’anno che verrà

L’anno che verrà

Il nuovo anno ebraico invita a introspezione, resilienza e speranza: dal significato dello shofar alla ricerca di un’umanità comune, oltre guerre e conflitti.

È quasi passato un altro anno e sta per arrivare un nuovo capodanno (Rosh ha Shanà). Il calendario ebraico ci dice che i prossimi 23 e 24 settembre avranno luogo le celebrazioni per l’inizio dell’anno 5786. La tradizione fissa come anno di partenza dell’umanità il 3760 a.C., data in cui avrebbe avuto origine il mondo così come noi lo conosciamo e quindi la ricorrenza è la festa di compleanno del Creato. L’inizio di un nuovo anno è sempre un momento di grande attesa e di speranze, ma la sinistra ombra che la guerra in corso in Medio Oriente proietta, con i suoi morti, con gli ostaggi ancora in cattività e con le conseguenti continue fiammate di antisemitismo, in tutta Europa, non disgiunta dal conflitto egualmente tragico in Ucraina, per un verso non consente di andare incontro alla ricorrenza con animo lieve, ma allo stesso tempo impone di fare ricorso allo spirito di resilienza e alla tenacia di cui il popolo ebraico, nel corso della sua storia ha dimostrato di possedere abbondantemente.

Specie nei momenti più cupi della storia occorre fare ricorso alla speranza e cercare in noi stessi un punto di ripartenza per poter immaginare un futuro migliore per noi, per i nostri cari e per l’umanità intera. Quanto detto è da occasione per precisare che anche il più lieto dei Rosh ha Shanà, non ha nulla a che vedere con il fragoroso capodanno civile del 31 dicembre, in cui in un ambiente chiassoso, coloritissimi fuochi d’artificio, botti e fragorosi brindisi la fanno da padroni, giacché la festività del Capodanno ebraico si svolge in una atmosfera di raccoglimento familiare ed allo stesso tempo di gioia, di desiderio di rinnovamento e soprattutto la volontà di intensificazione dei rapporti con la Trascendenza. È un giorno in cui ciascuno, con la propria personalità, con i propri problemi e con le proprie aspirazioni, viene chiamato a levare gli occhi al Cielo per interrogarsi a che punto è della sua vita, ed allo stesso tempo per chiedersi se la rotta intrapresa è quella giusta, o meno, ed è quindi giunto il momento di un deciso revirement, che imponga un repentino mutamento di destinazione nella vita di tutti i giorni, per ritrovare la giusta strada.

Nella Torah questo giorno viene chiamato giorno del suono, giacché, nel cerimoniale che caratterizza la ricorrenza, l’ascolto del suono forte e vibrante dello shofar ha un ruolo di primaria importanza. Può sembrare del tutto insolito che in un’epoca ipertecnologica come la nostra, un suono così primitivo ed allo stesso tempo forte e vibrante possa conservare tanta importanza. Lo shofar è un corno caprino e ricorda l’ariete che venne sacrificato da Abramo al posto dell’unico figlio Isacco, secondo il racconto biblico. Il suono emesso dallo shofar è quasi assordante, giacché ha la funzione di destare l’uomo dal trambusto della vita quotidiana, di scuotere la sua anima e di indurlo al silenzio. A dispetto di una realtà che lo vede bersagliato da continui messaggi di una comunicazione sopraffattiva ed aggressiva, in cui non si parla con il prossimo per cercare di comprendere le ragioni dell’altro, ma per imporre, senza farsi scrupoli, le proprie motivazioni giuste o sbagliate che siano. Una realtà in cui anche i grandi mezzi di comunicazione mistificano la verità distorcendola secondo una narrazione già preconfezionata a convenienza.

Il suono dello shofar ammutolisce, per un istante, l’uomo, per restituirgli dignità e per chiedergli di uscire dal tunnel oscuro in cui è andato a cacciarsi. Per chiamarlo a comporre il mosaico di un mondo migliore in cui la bramosia di potere, l’odio, il terrorismo e l’aggressività cedano il passo definitivamente al dialogo tra gli uomini e tra gli Stati. Viviamo, ahimè, in un’epoca di grande confusione e di mortificazione della verità ed in cui è molto diffusa la tendenza, alimentata da molti, anche per ragioni di immediato tornaconto politico, di creare, all’occorrenza, delle categorie da denigrare o sostenere secondo i propri interessi, rendendo il vivere insieme sempre più difficile.

Al cospetto di questa realtà è necessario augurarsi che l’anno nuovo ci induca sempre più ad ascoltare, anziché parlare, per ritrovare in noi stessi ed in ogni essere umano punti ed aneliti in comune ed anche timori condivisi, in altri termini il senso smarrito della nostra comune umanità. Questo è l’augurio che vicendevolmente dovremmo scambiarci, per un mondo migliore, senza conflitti, e per non correre quindi il rischio di trovarci tutti, nostro malgrado, con le mani sporche di sangue.