C’è chi lo ricorda per ‘Classe di ferro’, chi pensa a lui per il sodalizio al cinema con Pieraccioni, chi per quel gioiello ‘Basilicata coast to coast’. Artista poliedrico che spazia con facilità dalla recitazione alla regia, dalla scrittura alla musica, il suo percorso è una carrellata di istantanee in cui lo scorrere del tempo consente sempre di vedere in modo chiaro la sua maschera. Distinta e riconoscibile come poche. Protagonista de ‘L’ispettore generale’ di Nikolaj Gogol, torna a teatro con una commedia che mostra la piccolezza morale degli uomini. Una prestigiosa produzione a cura di Teatro Stabile di Bolzano, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e Tsv – Teatro Nazionale, con adattamento e regia di Leo Muscato, che restituisce una lettura attuale di una delle opere più iconiche della drammaturgia russa. Dal 25 febbraio allo Stabile di Catania.
“Sarà quell’attraversare il mare e approdare su un’Isola, però così grande…
“Quando torno in Sicilia, avverto la sensazione di entrare in un altro mondo. Un mondo meraviglioso, amico, accogliente, da cui sono rapito. Per citare la canzone di un maestro come Franco Battiato, trovarmi in una situazione geografica, naturale, di luce, di sapori, che ha una singolarità rispetto alla mia provenienza, è la mia cura”.
La Sicilia, in fondo, come la Basilicata. Il Sud ha ancora bisogno di qualcuno che lo convinca della sua bellezza, delle sue potenzialità, della sua capacità di sognare?
“Credo proprio di sì. Nel senso che conta tantissimo quello che viene dal potere, da chi guida il viaggio. C’è bisogno che tutti quanti diano quel contributo, quella spinta al sogno e alla consapevolezza di ciò che abbiamo e di come siamo stati favoriti anche dalla geografia. La Sicilia e la Basilicata sono luoghi incantevoli, posti che hanno ancora un contatto molto forte con una natura meravigliosa: il mare, le coste, le zone interne sono di una bellezza, anche tradita, ma sempre prepotente”.
“Dateci la nostra fetta di mafia”, il celebre intro di ‘Basilicata coast to coast’.
“Era ed è una provocazione. La mafia non è solo una deriva criminale, è anche un modo di pensare, di abbattere la democrazia, la meritocrazia, il favoritismo. Permane l’idea che si deve ‘oliare’ un po’, per avere quello che ci spetta di diritto, fa parte della nostra cultura. C’è anche in altre latitudini, però da noi è più pronunciata ed ha portato all’evacuazione di buona parte delle forze migliori. Poi i più coraggiosi rimangono e cercano di fare, però, se tutti quelli di valore che se ne sono andati fossero rimasti, il nostro Sud sarebbe fiorito in modo completamente diverso”.
Malefatte e tentativi di corruzione che si ripetono, dall’Ottocento zarista ai giorni nostri. È sempre la stessa storia?
“Siamo entrati nel merito di questo spettacolo che vuole essere divertente, farsesco, con l’equivoco che genera poi la comicità. In realtà, se consideriamo che si tratta di una satira contro la corruzione, lascia anche quella finestra spalancata sulla magagna del potere, sulla sua corruttibilità e sulla sua tendenza al malaffare. Nel 1836, quando Gogol mise in scena ‘L’ispettore generale’, fu un atto coraggioso, poiché, nel periodo zarista, criticare il potere poteva costarti la vita. Ma ancora oggi la corruzione persiste, quindi è un testo che parla anche al presente”.
Non è l’uomo a essere malvagio, è la società che lo rende tale?
“Rappresentiamo uno spettacolo dove non ci sono i buoni e i cattivi, ma solo cattivi. Da sempre nell’uomo c’è una componente di malvagità e la società, con la sua lente di ingrandimento, la mette in primo piano”.
La sfida di portare in scena un personaggio classico. Com’è stato uscire fuori dalla sua comfort zone?
“La mia zona di comfort è abusata. Non che abbia fatto sempre lo stesso, però sono quel tipo di attore che non si nasconde dietro i personaggi, che interpreta avendo una cifra stilistica, sempre ammesso che possa attribuirmela. Quello che cerco in questa fase della vita è qualcosa che mi possa sorprendere. Voglio sperimentare e non navigare sulle acque che conosco”.
I suoi primi lavori?
“Di diverso genere, dal cabaret musicale alla commedia dell’arte, a testi più impegnati. Anni, quelli, un po’ anarchici. Per caso, non per scelta, dove mi sono appassionato e sono riuscito a entrare nel circuito professionistico”.
Che periodo era quello, rispetto a quello attuale?
“Oggi ci sono moltissime scuole, altrettanti attori e una concorrenza agguerrita. Ma anche a i miei tempi, forse, era un po’ così. Di tutti i compagni delle due scuole di recitazione che ho frequentato – una di impatto e poi un’altra di perfezionamento – nessuno fa l’attore”.
Quelle tavole di legno su cui si sale per recitare, il palcoscenico. Una volta sopra, anche lei acquisisce un superpotere, quel coraggio che magari nella vita privata le manca?
“Beh, non lo definirei superpotere, entro piuttosto in una convenzione psicologica. Nel privato sono molto più trattenuto, ma sul palcoscenico sono spudorato”.
Oltre alla ricerca della naturalezza e della verità, si evince un forte legame con quell’espressione musicale che le appartiene. Sincerità, dunque, ma anche improvvisazione jazz?
“Credo che essere veri sia una condizione necessaria ma non sufficiente. C’è bisogno anche di una sensualità che poi dà la musica alla recitazione. In un certo senso ‘mi suono’, ovviamente senza farmene accorgere. Non posso certo cantare mentre sto recitando, però c’è comunque una musicalità e il jazz è il tipo di scansione che più mi stimola e mi ispira”.
La comicità è una sua forma di empatia conclamata. Una dote innata, quasi involontaria, che l’ha mai limitata nella carriera?
“È stata la materia che mi ha permesso di attraversare il fiume: dalla mia sponda, sono arrivato a quella di un certo numero più ampio di spettatori. Poi si è tramutata in uno svantaggio. Confido però che, pian piano, io possa essere, non dico apprezzato ma almeno ascoltato anche quando non faccio ridere”.
Disincantato, scettico, stralunato, pigro. Rocco Papaleo è Valium nel film ‘Follemente’ di Paolo Genovese. Che bisogno c’è di affannarsi, di prendere decisioni, se sappiamo già come va a finire?
“In fondo la vita è uno stato mentale. È quello che percepiamo, il nostro sguardo, il nostro punto di vista che comanda. A sessantasei anni compiuti, in equilibrio costante tra consapevolezza e inconsapevolezza, voglio ancora pensare di poter influenzare il mio domani”.

