Se Domenico Tempio e Cyrano de Bergerac sono prigionieri della Luna e rappano insieme - QdS

Se Domenico Tempio e Cyrano de Bergerac sono prigionieri della Luna e rappano insieme

Antonio Leo

Se Domenico Tempio e Cyrano de Bergerac sono prigionieri della Luna e rappano insieme

giovedì 11 Luglio 2024

Lo spettacolo scritto da Giuseppe Lazzaro Danzuso porta in scena l’incontro immaginifico tra il poeta catanese e il celebre spadaccino

CATANIA – Di questi tempi si chiamerebbe “featuring”, cioè quell’anglicismo con cui l’industria musicale definisce, almeno dai tempi di Mtv, le collaborazioni tra i cantanti con un’alleanza di scopo (sovente fare soldi, ça va sans dire). È in uso soprattutto tra i rapper che ormai non pubblicano quasi più canzoni da soli, ma sempre “feat” qualcuno. E in effetti anche di rap qui si parla, ma solo come uno degli espedienti che servono a quella mente vulcanica di Giuseppe Lazzaro Danzuso – giornalista&scrittore ma anche regista e tante altre cose – per portare sulla stessa scena Cyrano De Bergerac, lo spadaccino e letterato reso celebre dall’opera teatrale di Rostand, e Micio Tempio, il poeta catanese noto per i suoi versi erotici e per il poema sociale in rima “La Carestia”.

E però i due mica conversano e si accapigliano sulle rive della Senna o del Simeto; Lazzaro Danzuso li fa incontrare nientedimeno che oltre le nuvole e tra le stelle. “Miciu e Cirano sulla luna” è un’opera teatrale – per la regia di Angelo D’Agosta, che lo ha interpretato con Andrea Balsamo la prima volta lo scorso 27 e 28 giugno, nell’affollato auditorium del Centro polifunzionale di via Zurria – che trasporta il pubblico in una dimensione onirica in cui si assiste a un lungo dialogo tra due personaggi così diversi e così uguali, entrambi “prigionieri” per avere “scritto delle cose, controverse, ma in cui credevano. Una colpa che dev’esser davvero gravissima se la condanna è non potersi sciogliersi nell’eterna pace dell’oblio”.

La luna-prigione, a cui appunto sono destinati coloro che hanno lasciato il segno e che hanno la “disgrazia” di non morire mai, diventa l’osservatorio privilegiato da cui scrutare quanto accade nel mondo, dove la storia umana si ripete identica da quando i nostri sono passati a miglior vita (Bergerac nel 1655, Tempio nel 1821): “Ma che cosa combinano questi imbecilli? – si domanda arrabbiato ‘Miciu’ – Vogliono di nuovo incendiare l’Europa? Sterminare popoli interi?”.

Si parla di guerra, ma anche di munnizza e solitudine, di siccità e dipendenza dagli smartphone. E così tra rime in siciliano e battute in francese, i due artisti ragionano malinconicamente, ma senza perdere mai l’ironia, di quello che sono stati e di quello che potrebbero essere oggi, con i loro versi così intrisi di strada e di vita, un po’ come quelli dei moderni cantori urbani. “Oggi, noi, saremmo due barboni, clochard che mangiano alla mensa dei poveri, dormono in strada e fumano culazzi. E le nostre poesie, forse, sarebbero i testi di quelle canzoni rap che ascoltavamo ieri sul telefonino”.

Ed è a questo punto che parte un beat incalzante e Cyrano diventa il Cirano di Francesco Guccini:

Facciamola finita, venite tutti avanti/ Nuovi protagonisti, politici rampanti/ Venite portaborse, ruffiani e mezze calze/ Feroci conduttori di trasmissioni false/ Che avete spesso fatto del qualunquismo un’arte.

Miciu, invece, resta magnificamente Domenico Tempio con la sua Carestia:
Truvati genti prodiga, ma sulu in complimenti/di vucca, e in fari smorfii, ca non si spenni nenti./ Comu si sta vi spijanu ‘nsaluti, ma in sustanza nuddu comu si passanu l’affari di la panza./ E nenti s’interessanu si siti di pidocchi manciatu, o si l’inedia v’accanna e pista l’occhi.

Lo spettacolo – proposto nell’ambito della rassegna Corra la voce prodotta da Buongiorno Sicilia e finanziata nell’ambito di Palcoscenico Catania 2024 dal Comune e dal Ministero della Cultura – è anche un’ode alla Città dell’Elefante, con i suoi vizi e le sue bellezze. “Mi hai fatto amare Catania, Misciù – scandisce trasognante Cyrano -. Ho un grande desiderio di vederla, e non solo dal nostro telescopio, quella città di lava rappresa davanti a un mare di miti, con quel popolo disperato che, ridotto alla fame dalla carestia del 1798, finalmente si ribella”. Più che un ricordo, un monito.

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