Una notizia corre veloce sulle pagine dei giornali: il paracetamolo (o acetaminofene, in Italia noto con il marchio di Tachipirina) provocherebbe l’autismo o un disturbo dello spettro autistico in bambini nati da madri che hanno assunto il farmaco durante l’ultimo trimestre di gravidanza. La notizia ha creato scalpore anche perché mediata da dichiarazioni pubbliche rese alla stampa dal Presidente Trump.
Al di là del sensazionalismo che spesso impregna le prese di posizione della Casa Bianca per scopi primariamente populistici (vedi la definizione di sensazionalismo: “tendenza a divulgare fatti e notizie, per lo più esagerandoli, allo scopo di suscitare un notevole interesse nell’opinione pubblica”), rimane la questione di fondo di carattere puramente scientifico: è vero o non è vero? La scienza si basa su dati sperimentali ed esistono molti studi, pubblicati su autorevoli riviste, che confutano un collegamento tra paracetamolo e rischio di autismo.
Da uno studio svedese nessuna correlazione tra paracetamolo e autismo
Tra gli ultimi, è notevole uno studio svedese condotto su 2,4 milioni di nascite (dal 1995 al 2019), pubblicato nel 2024 su Journal of the American Medical Association (JAMA), che non ha riscontrato alcuna relazione tra l’esposizione al paracetamolo in utero e il successivo sviluppo di autismo, ADHD o disabilità intellettiva. Questa evidenza è rafforzata dall’assenza di un rapporto tra dose e risposta, e dal fatto che non vi era differenza quando tutti i bambini nati con autismo o deficit intellettivo sono stati posti in confronto con i loro fratelli o sorelle nati da gravidanze in cui la madre non era mai stata trattata con paracetamolo. Tuttavia, precedenti ricerche cliniche avevano posto il dubbio sulla correlazione tra farmaco e disturbi psichici nei bambini nati da madri esposte al farmaco.
Occorrono dati più convincenti
Questi studi hanno rilevato l’esistenza di un’associazione tra l’assunzione di paracetamolo nelle gestanti e la prevalenza di autismo in seguito nei loro figli, ma tutti si limitano a trovare una correlazione, cioè una relazione tra due variabili (assunzione di paracetamolo e autismo) che tendono a variare insieme, ma senza che l’una sia causa dell’altra. Quindi, il dubbio sarà fugato quando verranno resi disponibili dati più convincenti. Ma il monito che da questa vicenda possiamo trarre riguarda il valore intrinseco del dato sperimentale: mai dare per certo un dato che può suscitare scalpore solo per creare interesse nell’opinione pubblica, se esso non è documentato al di là di ogni ragionevole dubbio.
Dubbi anche sulla carne di pollo
Un altro dato, in questo caso divulgato senza alcun clamore mediatico nei mesi scorsi, riguarda il consumo di carne di pollo: esisterebbe un rischio aumentato di contrarre il cancro quando si consuma più di trecento grammi di carne di pollo la settimana. Il dato deriva da uno studio epidemiologico eseguito da un Istituto di Ricerca italiano e pubblicato su Nutrients, una rivista che si occupa di problematiche correlate all’alimentazione, che conclude: “Il consumo di carne di pollo al di sopra di trecento grammi la settimana è associato a un aumento statisticamente significativo di mortalità (per cause varie o per cancro gastro-intestinale); il rischio è maggiore negli uomini rispetto alle donne”.
I dati dello studio sono stati rivisti da esperti epidemiologici e statistici medici, i quali hanno confermato la correlazione anche se hanno messo in evidenza l’assenza di variabili confondenti ben note, come la mancata rilevazione di un indicatore, anche indiretto, dell’attività fisica dei soggetti esaminati e la mancanza di informazioni sulla modalità di preparazione della carne di pollame. È noto che la cottura ad alte temperature e per tempi prolungati, come nel caso della grigliatura o della cottura al forno, è responsabile della formazione di ammine eterocicliche e idrocarburi policiclici aromatici, noti composti mutageni associati al rischio di tumori gastrointestinali.
Analogamente, la distinzione tra carne fresca e trasformata, tra allevamento intensivo e produzione locale, tra tagli magri e industriali non è stata rilevata né discussa con rigore nel lavoro in oggetto. Quindi, in conclusione, i dati della sperimentazione e le sue conclusioni ancora una volta devono essere confermati con studi più conclusivi. Nessun sensazionalismo intorno a questa notizia, anche se in molti potrebbero modificare per prudenza le proprie abitudini alimentari e non farebbero, per questo, nulla di errato.
Filippo Drago
Professore Ordinario di Farmacologia all’Università di Catania

