Shalabayeva, condannato il Questore di Palermo Renato Cortese - QdS

Shalabayeva, condannato il Questore di Palermo Renato Cortese

redazione web

Shalabayeva, condannato il Questore di Palermo Renato Cortese

giovedì 15 Ottobre 2020

A cinque anni, con altri imputati, per il rimpatrio forzato, con la legge Bossi-Fini, della moglie e della figlia di sei anni del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov. Ma per la parte civile "chi dato ordini l'ha fatta franca"

Il rimpatrio di Alma Shalabayeva e della figlia Alua, sei anni, dall’Italia (cinquanta uomini andarono a prelevarle in una villa a Roma nella zona di Casalpalocco) in Kazakhstan alla fine del maggio del 2013 configurò un sequestro di persona.

Lo ha stabilito il Tribunale di Perugia, presieduto da Giuseppe Narducci, che ha condannato tutti gli imputati, a cominciare dall’attuale questore di Palermo, Renato Cortese, allora capo della squadra mobile di Roma, e da Maurizio Improta, che guidava l’Ufficio immigrazione e adesso la polizia ferroviaria.

Entrambi dovranno scontare cinque anni di reclusione e saranno per sempre interdetti dai pubblici uffici, così come Luca Armeni e Francesco Stampacchia, funzionari della squadra mobile.

Per Vincenzo Tramma e Stefano Leoni, in servizio all’Ufficio immigrazione, sono stati inflitti rispettivamente quattro anni e tre anni e sei mesi.

Il giudice di pace che si occupò del procedimento, Stefania Lavore, è stata invece assolta dall’accusa di sequestro di persona, ma condannata a due anni e sei mesi per falso.

Tutti gli imputati hanno assistito in aula alla lettura del dispositivo lasciando poi il Tribunale senza fare commenti.

In aula non c’era invece Alma Shalabayeva che vive a Roma con le figlie dopo essere tornata in Italia nel dicembre del 2013, mentre il marito il dissidente kazako Mukhtar Ablyazov è in Francia dove gli è stato riconosciuto l’asilo politico.

Attraverso il suo legale di parte civile, l’avvocato Astolfo Di Amato, ha comunque sottolineato di essere stata “molto colpita dall’indipendenza della Giustizia italiana”.

“Nel mio Paese non sarebbe andata così” ha aggiunto.

L’avvocato Di Amato ha però evidenziato come a suo avviso nella vicenda ci siano ancora dei punti non chiariti.

“Nessun imputato aveva un interesse personale – ha detto – e quindi hanno obbedito a degli ordini. Chi li ha dati l’ha fatta franca”.

Nel corso della requisitoria, il pm Massimo Casucci – che aveva chiesto condanne più lievi di quelle comminate dal tribunale – aveva sostenuto che Shalabayeva e la figlia furono imbarcate su un aereo per il Kazakistan “contro la loro volontà”.

Il rimpatrio sarebbe avvenuto con una forzatura della legge Bossi-Fini.

Per il magistrato la donna “riferì più volte i rischi che avrebbe corso se fosse tornata nel suo Paese” e il pericolo di subire violazioni dei diritti umani vista la posizione del marito. Parlando anche di “corto circuito informativo” e di “esplosione mediatica e politica del caso”.

Cortese, Improta e gli altri poliziotti coinvolti, così come la Giudice di pace, hanno sempre rivendicato la correttezza del loro comportamento e hanno annunciato ricorso in appello.

“Imputati ma galantuomini – ha sottolineato l’avvocato Massimo Biffa -, la punta di diamante della Polizia. Bisognerebbe essere fieri di essere rappresentati da loro”.

Sarà ora il Tribunale a dover offrire una propria lettura di quanto successo nelle ore che portarono all’espulsione, attraverso le motivazioni della sentenza.

Una vicenda nella quale erano coinvolti inizialmente anche tre funzionari dell’ambasciata kazaka a Roma, prosciolti però dal gup che ha riconosciuto loro l’immunità diplomatica.

I tre, tuttavia – emerge dai capi d’imputazione -, avrebbero attivato “direttamente l’Autorità di polizia italiana e ingerendosi sistematicamente nell’attività investigativa”.

Che portò – sempre in base alla ricostruzione accusatoria – a privare della libertà personale di Alma Shalabayeva e della figlia, al loro trattenimento e al rimpatrio.

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