“Gli dico: ‘Con loro abbiamo a che fare, quindi niente scherzi’”. Per quanto le cose stessero andando per le lunghe e non fosse chiaro se ciò dipendesse dai propri soci o dalla controparte, Giuseppe Trimboli aveva capito che non c’è nulla da prendere sottogamba quando si ha a che fare con il Clan del Golfo, il più temibile cartello della droga colombiano.
A ottobre 2021 Trimboli, 33enne di Platì (Reggio Calabria) che nei giorni scorsi è stato arrestato insieme a un’altra ventina di persone, ne parlava con un siciliano che nel Paese sudamericano si era invece stabilito da un decennio. Un tempo sufficiente per imparare ad adottare tutte le cautele necessarie a evitare qualsiasi fraintendimento con i narcos.
L’uomo si chiama Giuseppe Palermo, ha 47 anni ed è considerato un punto di riferimento per i narcotrafficanti italiani.
Frutta e caffè
Palermo è tra i destinatari della custodia cautelare in carcere. La gip Giovanna Sergi lo ritiene un anello fondamentale della catena che avrebbe consentito a tre gruppi di platioti – alcuni dei quali legati a famiglie di ‘Ndrangheta – di importare cocaina dalla Colombia.
Tra le vicende in cui Palermo è coinvolto c’è il tentativo, poi andato a vuoto, di acquistare quasi un quintale di cocaina, oltre che una serie di spedizioni di entità relativamente più modesta – in genere mezzo chilo o poco più – organizzate tramite comuni corrieri.
La prima storia occupa buona parte delle giornate che Palermo e Trimboli, giunto a Bogotà dalla Calabria, trascorrono tra l’autunno 2021 e l’estate del 2022.
I due, dopo avere chiuso un accordo con i narcos colombiani, provano a organizzare la logistica necessaria per garantire che la cocaina arrivi a destinazione.
La nave sarebbe dovuta partire da Bolivar, in Ecuador, per poi fare tappa interna a Guayaquil, dove la cocaina sarebbe stata caricata in uno specifico container, nascosta tra la frutta esotica o all’interno dei singoli chicchi di caffè, per poi ripartire verso Gioia Tauro. Qui sarebbero dovuti entrare in azione i complici utili a esfiltrare il carico di stupefacenti, prima del prosieguo del viaggio verso gli Emirati Arabi.
Il piano si rivela però più complicato del previsto.
I problemi con i pagamenti
A rallentare la spedizione sarebbero stati diversi fattori, tra cui la difficoltà a fare arrivare in Colombia il denaro necessario a pagare l’anticipo richiesto dai narcos.
Scartata l’uso di criptovalute, dalla Calabria i soldi sarebbero stati spediti quasi sempre tramite agenzie specializzate in servizi finanziari. Il problema riguardava era l’entità dei singoli trasferimenti di denaro – in genere meno di mille euro per volta – e la conseguente necessità, se non si voleva dare troppo nell’occhio, di trovare le persone disposte a intestarsi l’operazione.
Il più delle volte, infatti, a presentarsi allo sportello erano soggetti compiacenti che, in cambio della possibilità di trattenere il dieci per cento della somma da trasferire, accettavano di fornire le proprie generalità e fingere di avere parenti dall’altra parte del mondo.
Gli inquirenti hanno tracciato l’arrivo di almeno 150mila euro in Colombia, pari a circa il 25 per cento del valore del carico. A un certo punto della trattativa, la cocaina sembrava poter essere comprata per il prezzo di 7mila euro al chilo, con l’intenzione poi di rivenderla in Italia a 27mila.
Quattro giorni di tempo
I patti con i narcos erano chiari. Dopo l’arrivo della cocaina in Calabria, gli acquirenti avrebbero avuto quattro giorni per consegnare il resto della somma pattuita a Marcel, l’emissario dei colombiani che sarebbe partito per l’Italia.
È in merito a queste scadenze che Giuseppe Palermo ricorda a Trimboli la necessità di mostrarsi professionali. Dall’altra partem non ci si sarebbero stati soggetti dotati di molta pazienza. “Palermo raccontava di quando si era trovato a trattare con il braccio destro di tale Chiquito Malo”, si legge nell’ordinanza. Chiquito Malo (cattivo ragazzo, ndr) è il nome con cui è conosciuto Jobani de Jesús Ávila, da alcuni considerato potenziale erede in termini di carisma di Pablo Escobar.
Secondo Palermo, il Clan del Golfo “spediva ingenti carichi di cocaina in Italia e anche a Gioia Tauro”. Il livello di diffidenza dei narcos sarebbe stato tale da suggerire allo stesso Palermo di non fidarsi dei criptofonini che potevano essere recuperati in Italia, ma di optare per apparecchi che venivano venduti in Colombia a un prezzo equivalente a circa mille euro e che si sfruttavano server in Sudafrica.
Figlio d’arte
Giuseppe Palermo è in qualche modo un figlio d’arte. Il 47enne, che nel 2007 è stato condannato in via definitiva a otto anni e nove mesi per traffico internazionale di stupefacenti, è figlio di Vincenzo Palermo, “noto mafioso nato a Salemi”, si legge nell’ordinanza.
Il nome di Vincenzo Palermo compare in più di un’inchiesta: nel 1983 fu arrestato per favoreggiamento, dopo avere falsificato la propria patente e la carta d’identità, nell’ambito di un’indagine che aveva portato al sequestro di oltre 16 chili di eroina.
Tale vicenda finì all’interno di un’udienza del processo a Giulio Andreotti, celebratasi nel 1996. A menzionarla fu un maresciallo della finanza mentre parlava dei rapporti tra i cugini Salvo – gli esattori originari di Salemi – con persone legate a Cosa Nostra.
Di Vincenzo Palermo, inoltre, ha parlato anche il collaboratore di giustizia Vincenzo Ferro, indicandolo tra i postini dei pizzini da fare arrivare, tra gli altri, a Matteo Messina Denaro.
CREDITS FOTO: Rock Star su Usplash

