Entro il 2040 prevista una riduzione del 30% degli iscritti. Ma questa è solo una delle criticità da risolvere
È uscita da poco meno di un mese (18 febbraio) la World Reputation Rankings 2025, la nuova classifica di Times Higher Education (THE) sulle migliori Università del mondo per reputazione accademica e prestigio a livello internazionale.
Per stilare la graduatoria finale, basata su un ampio sondaggio tra accademici, si è tenuto conto di oltre 55 mila risposte; quest’anno, in particolare, sono stati valutati trecento Atenei di 38 Paesi diversi.
La posizione delle migliori Università italiane
La nuova classifica colloca La Sapienza di Roma in 90^ posizione, incoronandola migliore Università d’Italia. L’Ateneo romano ha registrato un avanzamento rispetto allo scorso anno, quando era posizionato nella fascia tra la 91^ e la 100^ posizione del ranking. Oltre a La Sapienza, anche l’Università di Bologna è entrata nella Top 100: secondo la nuova classifica The World Reputation 2025, l’Alma Mater Studiorum si classifica 92^. A chiudere il podio delle Università più prestigiose d’Italia è il Politecnico di Milano, che si piazza tra la 101^ e la 150^ posizione del ranking. Tra la 151^ e la 200^ posizione si trovano poi l’Università Bocconi, l’Università di Padova e quella di Pisa.
A dominare la classifica globale, collocandosi nei primi posti, sono gli Stati Uniti – con Harvard (prima), Stanford, Princeton, Yale e altre ancora – e il Regno Unito con l’University of Oxford e l’University of Cambridge. A seguire la Cina con due delle sue Università, il Giappone, con l’Università di Tokio, e la Svizzera con ETH Zurich.
In testa alla classifica globale, pertanto, si collocano l’Università di Harvard (per il 14° anno), l’Istituto tecnologico del Massachusetts e l’Università di Oxford. Seguono l’Università di Stanford, quarta insieme a Cambridge, le Università Lvy League di Princeton e Yale (9° posto) di Tsinghua in Cina e di Tokyo in Giappone (10° posto).
Le Università italiane, dunque, non solo non riescono a sfondare ma rischiano l’estinzione a causa di una forte crisi demografica e a causa di una struttura degli organici sbilanciata e una qualità dell’offerta formativa non sempre adeguata.
Entro il 2040 è previsto un calo del 30% degli iscritti
Nonostante i 9,4 miliardi di finanziamenti destinati al Fondo ordinario nel 2024 e i 2 miliardi annui aggiuntivi previsti dal Pnrr fino al 2026, diversi Atenei potrebbero essere a rischio chiusura. A lanciare l’allarme è stato Stefano Paleari, consigliere della ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, durante il convegno “Per un’Università nuova in un’Italia migliore”, svoltosi al Senato. Uno dei principali problemi è “l’inverno demografico”: il numero di potenziali studenti inizierà a calare dal 2027, con un declino stimato fino al 30% entro il 2040. Un cambiamento epocale che, se non affrontato con misure efficaci, potrebbe ridurre drasticamente la base di utenti dei nostri Atenei, minando la loro sopravvivenza e sostenibilità.
La diminuzione delle nuove matricole, unita a una struttura degli organici sbilanciata, rappresenta una minaccia diretta alla stabilità del sistema universitario italiano. Paleari ha spiegato che alcuni Atenei vedono crescere il numero di docenti, ma contemporaneamente soffrono una riduzione degli studenti iscritti e questo squilibrio rende sempre più difficile garantire una qualità dell’offerta formativa adeguata. A questo fenomeno si sommano altre criticità tra cui: lo squilibrio del personale accademico, con un numero elevato di ricercatori precari, di docenti senior associati e ordinari e tempi di ingresso troppo lunghi per i giovani, impedendo un efficace ricambio generazionale; la disomogeneità tra gli Atenei, alcuni in crescita per organico ma in calo per numero di iscritti; la carenza di personale tecnico-amministrativo qualificato che è indispensabile per l’innovazione tecnologica.
Il calo demografico e la carenza di nuovi studenti, infatti, si intrecciano con un altro problema critico: la crescente richiesta di personale tecnico-amministrativo altamente qualificato, capace di adattarsi alle nuove tecnologie. La difficoltà di reperire figure adeguatamente preparate per gestire le innovazioni digitali e l’introduzione di nuove modalità di insegnamento rischia di rallentare ulteriormente il processo di modernizzazione dell’Università italiana, già alle prese con le sfide imposte dalla globalizzazione, dalla digitalizzazione e dall’intelligenza artificiale.
Le molte critiche al sistema universitario
Ernesto Galli della Loggia ha duramente criticato l’autonomia universitaria, denunciando l’eccessivo potere dei rettori, un sistema burocratico opprimente e una governance inefficace. A suo parere, l’Università italiana sembra che abbia perso il suo ruolo fondamentale di promozione della cultura e della ricerca scientifica. Ha accantonato la sua missione culturale, trasformandosi in una competizione tra Atenei per ottenere maggiore spazio e prestigio. Inoltre, ha sottolineato come l’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) abbia assunto un ruolo eccessivo nel controllo del Sistema e come “quasi tutti i rettori siano ormai soliti vivere la loro carica come la tappa iniziale di un percorso di carriera ben maggiore, fuori dall’Università”.
Il sottosegretario di Stato Alfredo Mantovano ha evidenziato il rischio di infiltrazioni straniere nel sistema Universitario, che potrebbero sfruttare l’apertura accademica per sottrarre know-how e conoscenze strategiche. Anche il senatore Maurizio Gasparri (Forza Italia) è intervenuto puntando il dito contro la diffusione delle Università telematiche e affermando che il sapere online non può sostituire l’interazione e lo scambio diretto tra docenti e studenti: “Troppi guadagni per troppe università telematiche sono inversamente proporzionali alla quantità e qualità dei saperi”.
Nonostante le preoccupazioni, la ministra dell’Università Anna Maria Bernini ha mostrato ottimismo: “Le immatricolazioni sono in crescita, così come il numero di docenti e le risorse disponibili. L’obiettivo è costruire un’Università più forte e inclusiva, con maggiori opportunità per studenti e ricercatori”.
Ma le proteste studentesche non si fermano: in piazza Navona, il collettivo Cambiare Rotta ha manifestato contro le riforme, simboleggiando il dissenso con un asino di cartapesta. Secondo lo stesso Paleari, la risposta a questa emergenza non può essere soltanto finanziaria, ma richiede una revisione profonda della struttura e dell’organizzazione accademica attraverso un ripensamento delle politiche di reclutamento e dei percorsi di carriera. L’allarme demografico e il calo degli iscritti sono una realtà che non può più essere ignorata. Se non si interviene in modo deciso e tempestivo, il rischio è che molte Università italiane diventino sempre più marginali, incapaci di rispondere alle esigenze della società e di formare le nuove generazioni. È necessario un rilancio delle iscrizioni, attraverso incentivi e progetti che coinvolgano attivamente i giovani, promuovendo innovativi percorsi formativi, attenti alle reali esigenze del mercato del lavoro. Il futuro dell’Università italiana e, in particolare, degli Atenei del Sud dipende da un approccio che veda la riduzione demografica come una sfida da affrontare con politiche lungimiranti.
Il divario Nord-Sud
Per quanto riguarda gli Atenei siciliani, in base all’analisi dell’Osservatorio per la qualità dei servizi accademici Unicodacons, calano gli iscritti e cresce divario con il Nord. Le differenze tra realtà Nord e del sud del Paese vanno oltre la geografia e influenzano l’esperienza degli studenti, le opportunità di studio e le prospettive di carriera. Il calo più pesante degli iscritti a Catania, fanalino di coda che ha perso nell’anno accademico 2023-2024 il 9 per cento di immatricolati. Divario che rischia di aggravarsi alla luce dei trend demografici che vedono una forte migrazione dei giovani verso le regioni del Nord.
Da un recente studio condotto dalla Banca d’Italia, dal titolo “Il sistema universitario: un confronto tra Centro-Nord e Mezzogiorno”, emerge che si trasferiscono al Nord gli studenti più preparati e provenienti da famiglie con condizioni economiche migliori, in grado di sostenere i costi del trasferimento, degli affitti e della vita in generale. Spese che vengono affrontate sia per le maggiori opportunità di trovare un lavoro dopo la laurea, sia per usufruire di una migliore offerta formativa. Da un canto, la crisi degli Atenei determina un ingente dispendio di risorse economiche per le famiglie che devono affrontare i costi della migrazione studentesca; dall’altro, il che è ancora più grave, un’Università in agonia, anziché essere volano di siluppo culturale e socio-economico, sottrae ogni anno all’economia territoriale centinaia di milioni di euro, con conseguente penalizzazione di qualsiasi attività produttiva.
Pina Travagliante
Professore ordinario di Storia del pensiero economico presso l’Università degli Studi di Catania