ROMA – Dopo otto anni, Pedro Sanchez si avvia a portare di nuovo il partito socialista spagnolo ad una vittoria elettorale: ma il suo trionfo personale potrebbe essere l’unica e forse effimera certezza di un voto che – stando ai sondaggi – domenica sancirà la nascita di un Parlamento privo di maggioranze stabili e a rischio di crisi di governabilità a breve termine.
Il Psoe è accreditato di circa 130 seggi, ben lontano dalla maggioranza necessaria di 176 anche con l’ausilio degli alleati di sinistra Unidos Podemos, di poco sopra la trentina; dall’altra parte, la somma delle litigiose destre del Partido Popular e Ciudadanos con la nuova ultradestra di Vox non arriverebbe a 160, e senza alcuna prospettiva di possibili altri appoggi.
Sanchez, se vuole governare, dovrà quindi farlo in coalizione, e qui i margini di manovra sono assai ristretti. A meno che il voto degli indecisi della sinistra non dia una decisiva spinta a UP (il cui numero uno Pablo Iglesias è il leader che è uscito meglio dai due dibattiti televisivi pre-elettorali), l’unico modo di ottenere una maggioranza è quella di arruolare invece la destra neoliberale di Ciudadanos (ma stando ai sondaggi, non è affatto certo che la somma possa arrivare a 176) oppure accettare l’appoggio dei partiti nazionalisti e indipendentisti catalani e baschi.
La prima strada – sempre che l’artimetica la rendesse percorribile – avrebbe un vantaggio numerico: la più solida maggioranza possibile col minor numero di soci. Ma da ogni altro punto di vista, potrebbe causare al Psoe gravi problemi politici, di certo difficili da contenere per un’intera legislatura senza il rischio di una dura punizione alle prossime politiche.
Nel corso dell’ultima campagna C’s si è buttato alla conquista del voto della destra anche più estrema, non certo di quello moderato di centro (al quale mira invece lo stesso Psoe): una coalizione alienerebbe ai socialisti l’appoggio di tutta la sinistra, metterebbe a rischio quell’immagine di progressismo che Sanchez ha voluto proiettare nei confronti del suo elettorato più tradizionale e – non ultimo – chiuderebbe la porta a qualsiasi soluzione politica al conflitto catalano.
D’altronde, l’alternativa non appare particolarmente attraente se l’obiettivo di Sanchez è quello di rimanere alla Moncloa per i prossimi quattro anni: una riedizione del “patto della mozione di sfiducia” di luglio scorso, che una volta assolta la sua funzione di cacciare Mariano Rajoy dal governo è naufragata alla prima legge di bilancio.
Nulla fa pensare che un analogo destino non sia dietro l’angolo: per quanto gli indipendentisti catalani abbiano lanciato segnali di distensione, dicendosi disposti a tutto pur di favorire un’investitura di Sanchez senza precondizioni, è difficile immaginare che a un certo punto non presentino il conto: e il leader del Psoe è altrettanto a corto di contante politico di quanto lo era due mesi fa.
Inoltre, il prossimo esecutivo – se durerà sufficientemente a lungo – dovrà gestire anche la sentenza del processo ai leader indipendentisti, con in ballo la delicata situazione di un possibile indulto che per la destra è un’anatema: ma se non arrivasse, Sanchez rischierebbe di ritrovarsi con un esecutivo di minoranza ancor meno praticabile. L’unica via di uscita per il Psoe potrebbe essere la conquista di una maggioranza al Senato, attualmente nelle mani dei conservatori: in questa eventualità diverrebbe possibile aprire un tavolo per una riforma costituzionale, ma va tenuto conto del fatto che se la maggioranza degli spagnoli è in astratto favorevole alla necessità di rivedere la Carta del 1978, non esiste alcun consenso sui contenuti effettivi della riforma.
Lo scenario è dunque quello di un’altra legislatura all’insegna dell’instabilità e del conflitto: un genere di vittoria che forse il Psoe avrebbe preferito evitare.
