ROMA – Il destino delle aree interne e del Sud riguarda l’Italia intera. E se quasi il 90% dei comuni meridionali (di cui due terzi sono aree interne) ha subito un declino della popolazione negli ultimi dieci anni, dal 2014 al 2024, vuol dire che c’è un evidente problema irrisolto. Ed è la questione meridionale: a meno servizi disponibili in un territorio corrispondono meno persone disposte ad abitarlo. E a un sistema peggiore di welfare sociale corrisponde una maggiore fetta di persone che sta male, che vive in povertà o che deve emigrare per studiare e lavorare.
Un’Italia che va a due velocità
Il calo demografico nazionale e l’enorme problema di disuguaglianze di un’Italia che va a due velocità diverse creano il “mostro” dello spopolamento: tre milioni in meno di abitanti al Sud entro il 2050 e otto milioni in meno nel 2080, questione che abbiamo approfondito nella nostra edizione del 4 luglio 2025. Secondo i dati Istat, al Sud solo l’81,3% della popolazione in età 20-24 anni possiede almeno il diploma di scuola secondaria superiore; solo il 29% dei diplomati e il 7% di chi possiede un titolo di studio inferiore, ha un lavoro qualificato. Non va meglio per la spesa in istruzione, già bassa in Italia rispetto ad altri Paesi, che è calata significativamente negli ultimi anni con una flessione dal 2008 al 2020 del 19,4%. Inoltre, l’incidenza delle famiglie in povertà assoluta è pari al 10,2% al Sud a fronte dell’8,4% della media nazionale. Sulla sanità, poi, c’è un grande buco nero: secondo Crea Sanità per le patologie oncologiche tra il 2017 e il 2021 oltre 74 mila pazienti residenti nelle otto regioni meridionali si sono spostati in strutture ospedaliere di altre regioni.
C’è però spesso, nel nostro Paese, un ruolo di supplenza allo Stato quando i problemi sociali, con la sola politica nazionale, non vengono risolti o vengono risolti solo in parte. Si tratta degli enti del Terzo settore che operano in ogni città in cui si toccano con mano le differenze sociali, provando a immaginare nuovi modelli per restare. Questo succede quando il privato e il sociale si uniscono. “Ogni città prende forma dal deserto a cui si oppone” diceva Italo Calvino nel suo libro Città invisibili, e proprio grazie a questi enti le città prendono una forma più viva, inclusiva e accogliente.
Programma di sviluppo e rigenerazione locale nelle aree del Meridione
È quello che fa, per esempio, la Fondazione con il Sud: dal 2007 al 2023 ha assegnato 1.834 contributi nel Mezzogiorno per un valore complessivo erogato di oltre 299,8 milioni di euro che hanno riattivato una buona economia, oltre che l’occupazione e la socialità. Proprio di recente, la Fondazione ha siglato un cospicuo protocollo d’Intesa con l’associazione nazionale comuni italiani (Anci) per avviare un programma di sviluppo e rigenerazione locale nelle aree del Meridione. Anche l’Anci, nei territori, ha un ruolo determinante: alcuni esempi vengono dal documento diffuso di recente che riguarda lo stato di attuazione dei progetti realizzati con fondi Pnrr. Nel corso di pochi anni sono stati realizzati interventi sociali in tempi record: realizzati 253 chilometri di percorsi ciclabili nelle città, dato che entro il 2026 dovrà arrivare a 365 chilometri; nelle Città Metropolitane sono stati piantati 4,6 milioni di alberi; sono stati acquistati 825 dei 3000 nuovi autobus ecologici che entro il 2026 circoleranno nelle città; 1.300 gli interventi di valorizzazione di siti culturali o turistici nei piccoli Comuni tramite il cosiddetto “bando borghi”; 150 mila i posti di asilo nido realizzati o in corso di realizzazione nei Comuni. Anche di questo abbiamo parlato con Gaetano Manfredi, presidente di Anci nazionale.
Il bando Riabilitare il Sud
Un nuovo protocollo con la Fondazione con il Sud, che ha messo a disposizione otto milioni di euro da risorse private in “Riabilitare il Sud” per un programma di sviluppo locale e di rigenerazione demografica nel Meridione. Ci racconti alcuni punti cardine dei vostri progetti in questo protocollo.
“Il protocollo tra Anci e Fondazione nasce da un comune obiettivo, ovvero innescare processi di rigenerazione demografica e di rivitalizzazione sociale dei territori. Abbiamo dato l’avvio ad una collaborazione nell’ambito del bando che lei cita, ma sarà solo l’inizio di un percorso che faremo non solo a fianco dei comuni del Sud, ma di tutte le aree interne e anche di altre zone del Paese, che sono soggette a spopolamento e necessitano di nuove opportunità di sviluppo locale. Uniamo in sostanza le forze e supportiamo i Comuni per sensibilizzare anche una maggiore collaborazione tra pubblico e privato. Al bando Riabitare il Sud hanno partecipato 265 Comuni insieme a 204 enti di terzo settore meridionali, il che rappresenta come ci sia grande interesse all’iniziativa. Come Anci faremo in modo che però la diffusione e conoscenza presso i Comuni sia massima, e soprattutto che si diffondano le buone prassi che risultano vincenti per creare sviluppo, favorendo maggiori e più efficaci sinergie territoriali”.
Oltre al piano condiviso con la Fondazione, dove e in che modo l’Anci si batte contro lo spopolamento delle aree interne? Quali sono le maggiori difficoltà che incontrano le amministrazioni locali?
“Per contrastare lo spopolamento e favorire la crescita, proponiamo una serie di misure basate su sostenibilità, innovazione e cooperazione, quelle che in sintesi definiamo l’Agenda Controesodo che mira appunto a rilanciare le aree interne italiane, trasformandole da zone marginali in poli di sviluppo. Punto centrale è la stabilizzazione della Strategia nazionale aree interne (Snai) in una politica strutturale semplificata, integrando le politiche ordinarie, e che prevede ad esempio: incentivi per i residenti (agevolazioni fiscali, contributi per la prima casa, sostegno a servizi di prossimità, potenziamento dei trasporti e della sanità, agevolazioni per docenti e deroghe per le classi per garantire l’istruzione); incentivi finanziari (Pes) per la gestione sostenibile dell’ambiente e sviluppo del turismo sostenibile e culturale, promozione dell’agricoltura multifunzionale per la manutenzione del territorio, cruciale per la prevenzione idrogeologica e il coinvolgimento giovanile in cooperative di comunità; recupero di immobili abbandonati per nuovi residenti/imprenditori ma anche programmi per incentivare l’innovazione tecnologica, dal potenziamento della connettività (banda larga, 5g), alla promozione di coworking e smart working per attrarre nuovi abitanti. Nonostante i successi della Snai nell’innovazione e nel rafforzamento delle competenze locali, persistono limiti progettuali e interistituzionali. C’è poi da considerare la proposta che facciamo come Anci di adottare il modello Pnrr per le politiche di coesione ma anche per le aree interne. Lo abbiamo già sottolineato nell’Agenda dei Comuni e delle Città sulle politiche di coesione europee presentata al vicepresidente esecutivo della Commissione europea Raffaele Fitto, proprio alla luce dei dati sul Pnrr e delle risorse assegnate anche ai piccoli comuni, come ad esempio nel caso del bando Borghi, che ha raggiunto pienamente il target prefissato”.
Comuni a rischio e Pnrr: secondo il vostro rapporto lo stato di attuazione dei progetti del piano è al 61%. Come giudicate lo stato di avanzamento delle risorse investite nei territori?
“Se a proposito di comuni a rischio si intendono i piccoli Comuni, con popolazione al di sotto dei cinquemila abitanti (che non significa necessariamente essere a rischio spopolamento), il dato del 61% si riferisce a progetti in fase già conclusiva. Questo avvalora ancora di più l’idea del modello positivo del Pnrr e della sua efficacia, sia per l’assegnazione diretta delle risorse a Comuni e Città con l’eliminazione di intermediazioni istituzionali che per l’adozione di ampie e significative semplificazioni, dove l’approccio basato su obiettivi e traguardi, insieme alle forme di supporto centralizzato hanno consentito di ampliarne l’efficacia, nei piccoli Comuni come nelle città medie e metropolitane”.
Lavoratori in progressivo calo e intanto i pensionati “fuggono”
Per leggere i dati sullo spopolamento, però, serve avere numerose lenti di osservazione e prevedere (o prevenire) le conseguenze che ne derivano. Il panorama dell’inverno demografico, definibile come l’insieme dei fattori che riguardano il calo della natalità e l’invecchiamento della popolazione in un territorio, è una di queste conseguenze. Una sorta di letargo ma senza il risveglio ciclico dettato dalle belle stagioni che, prima o poi, almeno arrivano. Un sonno profondo che, in Italia, sta diventando un problema sociale.
Secondo l’Ocse, la popolazione in età lavorativa (tra 20 e 64 anni) diminuirà del 34% entro il 2060, ad un ritmo di oltre quattro volte superiore alla media Ocse (8%): sono 12 milioni di persone in meno. Nello stesso periodo il rapporto tra occupati e popolazione totale nel nostro Paese diminuirà di 5,1 punti percentuali. Se la crescita annuale della produttività del lavoro rimarrà al livello del periodo 2006-2019 (0,31% in Italia), si prevede che il Pil pro capite diminuirà a un tasso annuo dello 0,5%: un -22% nel 2060.
Meno persone, meno lavoratori, Pil più basso: non è una questione di forma, ma di sostanza. Sociale ma anche economica. Si tratta di un’emergenza in Italia, ma in realtà riguarda tutti i Paesi Ocse. Il calo della fertilità e l’aumento dell’aspettativa di vita implicano un invecchiamento della popolazione dei 38 Stati. Con la progressiva uscita dalla forza lavoro della numerosa generazione dei baby boomer (i nati tra il 1946 e il 1964, durante il boom economico del dopoguerra), la popolazione in età lavorativa nei paesi Ocse sta diminuendo. Inoltre, l’indice di dipendenza degli anziani, cioè il rapporto tra gli individui di età pari o superiore a 65 anni e la popolazione in età lavorativa, è aumentato drasticamente dal 19% nel 1980 al 31% nel 2023 e si prevede che aumenterà ulteriormente fino a raggiungere il 52% in media entro il 2060.
I pensionati italiani emigrano sempre di più
E questo lo sanno bene i pensionati italiani che, secondo un’indagine diffusa di recente dall’Inps, emigrano sempre di più (triplicati negli ultimi 15 anni). Non per una fuga dalla vecchiaia, ma per calcolo economico. L’Inps parla apertamente di un “fenomeno in crescita”, in cui il trasferimento fiscale è ormai parte di una strategia di lungo periodo: per avere benessere e ottimizzare il capitale residuo, frutto di un’intera vita. I dati parlano di 38 mila trasferimenti post-pensionamento nell’ultimo quindicennio, su un totale di quasi 229 mila pensioni oggi erogate all’estero. Tornano in pochi: tra le 400 e le 800 persone l’anno. Spagna, Portogallo, Tunisia ma anche Svizzera: queste le mete più gettonate.
Il motivo? Pagare meno tasse, spendere meno per vivere e godere di un buon clima. Ma anche ragioni “essenziali”, come un sistema sanitario migliore oppure affitti delle case meno salati. Ma, come al solito, solo chi ha maggiori possibilità riesce a prendere questa “via per la salvezza”. L’identikit è di un uomo, spesso del Nord Italia, con un reddito medio lordo superiore ai 5 mila euro mensili. L’Inps lo descrive come una figura sempre più consapevole, che compie una scelta strategica per “ottimizzare il benessere complessivo”. Il tasso di emigrazione per queste fasce è sei volte superiore a quello delle fasce basse. I dati rivelano anche una transizione di genere: se nel 2003 il 60% dei pensionati residenti all’estero erano donne (soprattutto beneficiarie di reversibilità), oggi il 61% sono uomini. Un passaggio che riflette la fine delle generazioni femminili più anziane e la crescita di una nuova fascia maschile economicamente solida e più incline alla mobilità. Le regioni con il tasso più alto di pensionati in fuga sono Friuli Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta, Liguria e Lombardia. Il Lazio registra numeri rilevanti, ma sono in forte crescita anche Abruzzo e Sicilia. Le fasce più fragili, però, restano escluse: non hanno i mezzi per organizzare il trasferimento, né la salute per reggere l’impatto di un cambiamento radicale. Non è un Paese per vecchi, non è un Paese per giovani e lavoratori: ma se c’è il privilegio, tutto è più sopportabile. Anche la fuga.

